I monti Albani
costituivano la roccaforte naturale dell’antico Lazio, che aveva il suo centro
nel monte Cavo. Roma era situata al margine settentrionale, ma sia la città che
la zona circostante assunsero sin dalle origini una posizione di rilievo.
Entrambe affacciavano sul Tevere, fiume che separava il territorio laziale da
quello etrusco. Il Gianicolo costituiva la testa di ponte. Dopo pochi
chilometri il fiume raggiungeva il mare, mentre risalendo il corso d’acqua sia
del Tevere che dell’Aniene si raggiungevano Curi e Tibur, località di origine
dei Sabini. Questa posizione particolare di Roma ebbe notevole importanza per
la sua storia.
Secondo la tradizione
romana, all’epoca di Romolo i Romani si fusero con i Sabini di Tito Tazio
creando un’unica popolazione. La ricerca archeologica ha confermato questo
dato. E’ attestata infatti la presenza di un insediamento latino sul Palatino
differenziato dagli insediamenti sabini sull’Esquilino, Viminale e Quirinale. I
Latini cremavano i loro morti e ne riponevano le ceneri in urne a forma di vaso
o di capanna; i Sabini invece collocavano i corpi intatti in bare ricavate da
alberi oppure sotto lastre di pietra. Due civiltà convivevano pertanto sul
suolo di Roma: la civiltà villanoviana dell’Italia centrale e quella adriatica.
Quest’ultima mostra di avere legami con le civiltà del ferro danubiane e
balcaniche, con propaggini ad Oriente in Asia Minore. Portatori della civiltà
adriatica in tempi storici furono principalmente gli Illiri. Le popolazioni
osco-umbre nella penisola italica furono spinte appunto da genti il illiriche
verso nuovi insediamenti. Mutuarono dai loro vicini illiri la pratica di
seppellire i morti in tombe a fossa, tradizione che mantennero anche sul
territorio romano. Alla mescolanza delle popolazioni corrisponde il quadro
linguistico. Il latino dell’urbe vede la sostituzione, all’interno della
parola, della b e della d con f, di qu e g con p e b (scrofa, infernus, lupus,
bos). Caratteristiche queste che appartengono ai gruppi osco-umbri.
La tradizione colloca
la fondazione di Roma nell’VIII secolo. In effetti nessun ritrovamento risale
ad epoca più antica. Alla fine del secolo successivo si ha l’evento decisivo:
la fusione di insediamenti latini e sabini, con la coesistenza di sepolture a
cremazione e a inumazione poste all’interno del limite urbano. Come
testimonianza di ciò abbiamo la festa del Settimonzio, che derivò dai sette
montes della riunita comunità urbana, e in questa stessa forma, segno
dell’attaccamento romano alla tradizione, la festa fu celebrata sino in epoca
storica. A ciò si aggiunge l’ubicazione della necropoli al margine di quello
che sarebbe stato il Foro. Essa mostra nel suo strato superiore i pozzi rotondi
dei cremati, assieme a tombe costituite da alberi, o da fosse coperte da lastre
di pietra, degli inumati. Questo cimitero, originariamente appartenente agli
incineranti del Palatino, accolse successivamente gli inumanti dei Monti. Gli
abitanti del Palatino non poterono cedere la loro antica zona di sepoltura ai
vicini Sabini senza un chiaro atto giuridico.
I diversi insediamenti
romani sorsero poi in base a un trattato, in base al quale incominciarono a
fondersi in una comunità.
Contemporaneamente si
manifestano a Roma i primi influssi etruschi. Una tomba di guerriero dell’Esquilino
ha una certa similarità con le tombe dei principi etruschi del VII secolo. Nel
Foro, non lontano dal tempio di Saturno,
su un vaso a bucchero si è trovata una iscrizione etrusca arcaica. Le colline
della più antica Roma recavano nomi etruschi o almeno composti alla maniera
etrusca, e lo stesso vale per il nome Roma e per quello del mitico fondatore
Romolo.
Non si può infine
tralasciare la presenza a Roma di oggetti greci d’importazione. Vasellame
proto-corinzio è stato trovato nella necropoli dell’Esquilino, nello strato più
recente degli scavi del Foro ed in una fontana vicina al tempio di Vesta.
Proprio in questi antichi strati della città era quindi presente l’elemento
greco. Quel che vale per i reperti archeologici vale anche per la religione, come
si evidenzia attraverso il più antico calendario festivo. A Roma, come fra gli
Etruschi ed un po’ in tutta Italia, l’elemento greco costituì un elemento
originale essenziale nella formazione di quelle culture.
Il calendario festivo
romano è contenuto in una serie di redazioni epigrafiche, la più antica delle
quali risale ad epoca pre-cesarea. La maggior parte di questi calendari viene
collocata nel periodo corrente tra la fondazione del principato e l’impero di
Claudio. Un testo base scritto in grandi caratteri capitali di colore nero si
distacca da aggiunte e note successive in caratteri più piccoli e rossi. Il
calendario nasce nel VI secolo e ci riporta l’elenco delle feste e degli eventi
cultuali della Roma arcaica. La sua redazione coincide con l’installazione
dell’ultimo insediamento sabino sul suolo romano, quello del Quirinale,
nell’ambito della nuova comunità.
L’unione dei diversi
insediamenti sul suolo romano ebbe inizio con la fusione fra la comunità
palatina e quella sabina dell’Esquilino. Come prima accennato, la festa del
Septimontium rappresentò il corrispettivo cultuale di questa unione. Veniva
celebrata l’11 dicembre, ed in tale occasione si sacrificava ai sette montes.
Ossia: Palatium, Cermalus, le due cime del Palatino, la Velia, posta subito a
nord dei primi; Fugutal, Cispius e Oppius, cime dell’Esquilino; infine il
Caelius a sud. A questi sette colli si aggiunge, in base alle fonti, un altro
nome: la Subura, valle situata all’interno del Septimontium, tra le Carinae ed
il Fugutal, che però in quanto valle non fu contata tra i montes.
Il più antico
calendario mostra lo sviluppo determinato dalla fusione di questi insediamenti.
Tra gli Dèi che vengono nominati in questo sistema festivo, spicca Quirino. Ciò
significa che la collina che sin dall’antichità era sua sede e che pertanto
prendeva il nome del dio – il collis Quirinalis – apparteneva allora all’ambito
urbano. Anche Sol Indiges aveva il suo luogo di culto sulla stessa collina. La
gens Aurelia, che dedicava un proprio culto al dio, era di origine sabina; il
che conferma che l’insediamento del Quirinale e quello dell’Esquilino
appartenevano ai Sabini. Altra prova è fornita dal nome degli Aureli, che
deriva da ausel (Auselii), denominazione sabina del sole.
Il più antico
calendario festivo corrisponde pertanto allo stadio dello sviluppo urbano,
allorché il Quirinale si era aggiunto all’originario Septimontium. Il
Campidoglio si trovava ancora al di fuori dei confini della città, per cui tale
calendario ignora la fondazione del tempio capitolino. L’inserimento del
Campidoglio nella cerchia urbana avvenne in tempo successivo, allorché il
ruscello del Foro come la pianura acquitrinosa che separavano il Palatino e la
Velia dal colle capitolino, furono prosciugati. La costruzione della cloaca massima,
che permise tale prosciugamento, fu realizzata verso la fine della monarchia.
C’è un precedente
rispetto alla collina del Campidoglio, il Capitolium vetus, ugualmente
consacrato alla triade Iuppiter, Iuno e Minerva. Anche il più antico Campidoglio
non è inserito nel calendario festivo arcaico, per cui è posteriore alla sua
redazione. Non si trovava però sul colle capitolino, ma sul Quirinale. Si
deduce pertanto che l’istituzione della triade avvenne in un’epoca in cui
soltanto il Quirinale, ma non ancora il Campidoglio, era inserito nel limite
urbano.
Prima dell’erezione
del tempio capitolino e dell’inserimento del colle e del Foro sottostante nel
confine urbano, questo comprendeva il solo Septimonzio ed il Quirinale. Questa
è l’immagine della città che appare nel più antico calendario. Con ciò si ha la
possibilità di una datazione. Fin quando il Foro era paludoso, le sue rive
venivano utilizzate soltanto come area per una necropoli. Tale situazione durò,
in base ai reperti ivi ritrovati, fino ai primi decenni del VI secolo. Solo
successivamente il Foro potè essere utilizzato come luogo di riunioni, per
attività pubbliche e come luogo di mercato. Il rinnovamento avvenne quindi
verso la fine del secolo, datazione confermata dai resti che testimoniano
l’inizio della costruzione del tempio sul Campidoglio sotto Tarquinio Prisco, e
quella della cloaca massima sotto Tarquinio il Superbo. Per cui l’ampliamento
significativo della città è da collocarsi tra la metà e la fine del VI secolo.
Il calendario rispecchia la situazione urbana precedente a tale sviluppo.
Ancora più agevole
diviene la datazione delle fasi di sviluppo storico dell’urbe. Se il Capitolium
vetus sul Quirinale presuppone la stessa realtà urbana individuata nel
calendario, ma non è menzionato dal calendario stesso, vuol dire che la
fondazione del tempio si colloca alla fine del periodo in cui il Quirinale fu
inserito nella cerchia urbana,
mentre il calendario
si colloca verso l’inizio di questa fase. Risulta allora
logico dedurre che il calendario presentasse un sistema festivo
fondamentalmente per la comunità dopo l’unione del Septimonzio e del Quirinale.
Dovette essere una
circostanza particolare a produrre un simile sistema festivo e cultuale dal
carattere globale, circostanza da ricercarsi nell’inserimento dell’ultimo
insediamento ancora indipendente nell’ambito urbano. In quel momento si
dovettero affermare quelle norme che d’allora in poi sarebbero valse per la
nuova comunità. Non sorprende che alla stessa epoca risalga la formazione di un
sistema politico stabile. Anche la creazione delle curie avvenne in quegli anni
in cui le varie comunità si unirono sul suolo romano. Con ciò si delinea da un
punto di vista cultuale e politico la struttura della Roma arcaica.
In realtà il
calendario si presenta come un sistema ordinato, di cui non si può misconoscere
il riferimento ad una comunità di una certa importanza. La sequenza e la ripartizione delle feste, ordinate in
gruppi, mostra di tener conto di una tale comunità.
Il raggruppamento
delle festività si evidenzia soprattutto a marzo ed ottobre. Il mese di marzo
prende la sua denominazione dal dio Marte, e nel suo corso vengono celebrate le
feste del dio, a partire esattamente dalla fine di febbraio (Equirra, 27 febbraio)
e durante il mese successivo. I giorni dedicati a Marte sono infatti il 1° ed
il 14 (Equirra), il 17 e 19 (Quinquatrus), il 23 (Tubilustrium). A queste
celebrazioni corrispondono nel mese di ottobre, l’Equus October (15 ottobre),
in cui viene sacrificato il cavallo di destra del carro vincitore della corsa,
e l’Armilustrium (giorno 19): esattamente la relazione si sviluppa fra l’Equus
October e le Equirra, tra l’Armilustrium e il Quinquatrus. Esposizione delle
armi e dei corni di guerra, come la corsa celebrativa delle bighe, coincidono
con la partenza dell’esercito per la guerra in primavera e col suo ritorno in
autunno. L’originaria propensione alla guerra della comunità trovava
espressione nel culto. Se i Fontinalia venivano subito prima del sacrificio del
“cavallo d’ottobre”, ciò vuol dire che doveva esserci un nesso tra cavallo e
fonte.
Strettamente connessi
sono febbraio e maggio, entrambi consacrati ai morti. In conformità di ciò
maggio prende il suo nome dalla divinità tellurica Maia, la “grande”,
appellativo che si ripropone anche nel greco Megale e nell’antico indiano mahi.
La tradizione romana collega febbraio con il dio dei morti Februus, omologato
con Dispater. In questo mese si celebrano i Parentalia per la durata di nove
giorni; il solo giorno conclusivo della celebrazione (21) veniva indicato come
feriae publicae ed era quindi l’unico ad essere contrassegnato nel calendario.
Nel mezzo dei Parentalia cadevano i Lupercalia, festa di Fauno, in cui il
popolo veniva purificato di tutti i mali e i pericoli da cui era minacciato
durante questo periodo dei morti. A maggio invece si celebravano i Lemuria
(9,11, e 13) e l’Agonium di Vedove (21), entrambe celebrazioni dei morti. Anche
il Tubilustrium di Vulcano, affine cultuale di Maia, si colloca per tale
affinità e per la tuba nell’ambito dei culti dei morti (la tromba svolge un
ruolo significativo nel culto).
A luglio cadono i
Neptunalia (23) nel mezzo di un ciclo festivo dal carattere omogeneo
comprendente anche i Lucaria (19 e 21) ed i Furrinalia (25). Negli stessi
giorni d’agosto si colloca un altro gruppo di celebrazioni che si raggruppano
attorno ai Volcanalia del 23. Accanto al giorno dedicato al dio della terra e
del focolare, abbiamo la festa della raccolta dell’uva (Vinalia, il 19) e la celebrazione
del Dio Conso con cui si pone in relazione Ops (21 e 25): sono tutte
celebrazioni aventi a che fare col raccolto e con i frutti della terra.
Le feste di aprile
fanno ugualmente riferimento alla vegetazione, ma sono legate ai diversi
aspetti sotto i quali si presenta la madre terra (Fordicidia, 15; Cerealia,
19). I Vinalia del 23, a differenza di quelli di agosto, sono contrassegnati
come priora e corrispondono ai Pithoigia attici: era il giorno in cui per la
prima volta si provava il vino nuovo. Con i Robigalia (25) si teneva la ruggine
lontana dai campi. Nell’ultimo giorno del mese o all’inizio di maggio si
celebravano i Floralia, che probabilmente all’epoca della redazione del
calendario più antico era una festa mobile (feriae conceptivae).
Dicembre è
caratterizzato da una serie di celebrazioni che si rivolgono ancora alla terra
ed alla sua vegetazione. I Consualia (giorno 15) sono collegati con un giorno
dedicato ad Ops (giorno 19). Diva Angerona, celebrata il 21, era probabilmente
una divinità ctonia ed i Larentalia (giorno 23), come i Compitalia (feriae
conceptivae), appartenevano al medesimo ordine. In questi due giorni si
celebravano i Lari, ma nel primo si celebrava in particolare la dea Larentina.
Questa si presentava anche come madre del Lari e come tale si chiamava Mania;
doveva pertanto essere alquanto vicina ai Mani.
Ancora una parola su
gennaio. Prende il suo nome da Ianus, il dio di ogni inizio, la cui festa cade
il 9 del mese. Subito dopo vengono i Carmentalia (11 e 15). La dea della
nascita si pone in connessione con Giano, visto che ogni nascita è anche un
inizio. In connessione con ciò il più antico tempio di Giano sorgeva dinanzi
alla porta Carmentalis. Anche la festa del raccolto, le feriae sementivae era
celebrata a gennaio. Anche in questo caso si trattava di un inizio, questa
volta di quel che nasceva dalla terra.
Tali dati dovrebbero
essere sufficienti a mostrare come il calendario costituisse un sistema
ordinato, uno schema unitario delle usanze festive, avente alla base una
concezione omogenea. Non si può non riconoscere in esso una consapevole volontà
creativa. Non si può sapere però se si trettò del prodotto di un gruppo o
piuttosto di un singolo. Il solo dato concreto è che tale sistema apparve in un
preciso momento storico evidenziando uno scopo non meno preciso.
Nonostante la
struttura unitaria, si notano nel calendario strati più antichi. Essi fanni
supporre che il sistema conchiuso e stabile che ci è pervenuto attraverso il
calendario arcaico, sia invece il risultato di un lento sviluppo.
Si nota inoltre che
una serie di divinità proveniva dalla vicina Etruria o dalla Grecia. Ma anche
se si prescinde da queste divinità straniere, quel che resta non appare
assolutamente omogeneo. Portuno originariamente costituiva una epiclesi di
Giano, e solo successivamente divenne una divinità autonoma. Si riconosce
pertanto che in uno stadio precedente la redazione del calendario si verificò
la dissociazione di un dio da un ambito divino dal carattere omogeneo. Anche in
ciò si ricorda che una serie di feste non assume il nome di divinità, come
invece Opalia, Larentalia, Consualia, Furrinalia, ma prende la sua
denominazione dal carattere specifico dell’azione cultuale. Agonium ad esempio,
indica originariamente soltanto che si compiva
un sacrificio. Il che spiega come mai i giorni in cui cade l’Agonium (9
gennaio, 17 marzo, 21 maggio e 11 dicembre) appartengano a quattro diverse
divinità (Giano, Marte, Vediove e Sole Indigete). Anche il Quinquatrus del 19
marzo indica soltanto una data: il quinto giorno scuro dopo la luna piena.
Dello stesso genere sono Armilustrium, Equirra, Poplifugium, Regifugium,
Tubilustrium ed Equus October, che prende il nome dal sacrificio del cavallo.
Anche qui, con la dovuta preacauzione, si potrebbe scorgere la coesistenza di
strati differenti.
Anche la storia della
città ci porta a ulteriori considerazioni. Se Roma era nata dall’unione di
diversi gruppi, sorge la naturale domanda se le entità dell’antico calendario
non siano da attribuirsi ciascuna ad uno specifico insediamento.
Palatium e Palatino
presero il nome da Pales. Ciò indica che era una divinità d’origine latina,
legata pertanto alla tradizione di questo popolo di cremare i cadaveri. La
stessa cosa vale per Vulcano, il cui il più antico luogo di culto, il Volcanal,
si trovava all’interno delle fosse crematorie del Foro. L’altare di Conso si
trovava nella vallis Murcia a sud-ovest del Palatino, dove successivamente
venne costruito il Circo Massimo. La collocazione era sotterranea e il suo
altare era ricoperto di terra. Ciò ricorda la maniera più antica di seppellire
le messi; del resto proprio dal “sotterrare” (condere) deriva il nome del dio.
Anche Fauno appartiene
all’insediamento del Palatino. Sua festa erano i Lupercali del 15 febbraio. In
questo giorno i lucerci, sacerdoti del dio, si cimentavano in una corsa lungo i
pendii del Palatino.
Tale usanza ha una
giustificazione soltanto se si ammette che il perimetro di questa collina
coincidesse con quello della città. Il collegio sacerdotale si divideva in
lucerci Fabiani e Quinctiales (o Quintiliani). Entrambi, come indicano i loro
nomi, appartenevano a delle sodalitates gentilizie: i Fabiani sono chiaramente
collegati alla gens Fabia, la cui tradizione gentilizia si lega al culto di
Fauno ed ai lupercalia. D’altra parte il culto gentilizio dei Fabi veniva
praticato sul Quirinale e non sul Palatino. Presumibilmente dopo l’unione della
comunità del Quirinale con quella del Palatino, fu aggiunta la sodalitas dei
Fabiani, facente parte della comunità del Quirinale, a quella dei Quinctiales,
il cui luogo di culto si trovava sul Palatino.
A Fauno ed ai luperci
si collega il Lupercal, “la grotta del Lupo” situata ai piedi del Palatino. In
essa secondo il mito erano stati allattati dalla lupa Romolo e Remo; qui si
trovavano la ficus ruminalis e la porta Romana, che conduceva al Tevere, entrambi
connessi col nome etrusco Rumon. Anche Diva Rumina, venerata sul Palatino,
appartiene a questo ambito. Tutti questi nomi hanno la radice rum, rom, che si
trova anche in Romulus e Roma. Come ha mostrato W.Schulze, il nome della città
contiene il gentilizio etrusco ruma. Non è quindi casuale che la leggenda di
Romolo si leghi al Lupercale ed alle località vicine. Anche i gemelli e figli
del dio-lupo Marte nutriti dalla lupa, significativamente si collegano a Fauno
o Luperco, che hanno forme di lupo o che rievocano il lupo nel loro nome. Da
tutte queste constatazioni risulta che il nome di Roma originariamente si
legava al Palatino. La tradizione antica anche in questo caso si è dimostrata
vera.
Di contro agli dèi del
Palatino abbiamo le divinità delle comunità sabine dei monti romani.
Qui è da menzionare
Flora. Il suo tempio più antico si trovava sul Quirinale e pertanto Varrone la
annoverò fra le divinità sabine alle quali Tito Tazio eresse altari. In realtà
Flora la si incontra solo tra i cugini dei Sabini, le popolazioni sannite e
sabelle, nonché tra gli Umbri. La sua festa Fiuusasiais (Floralibus) ed il suo
nome (Fluusai kerriai = Florae Cereali) compaiono nell’iscrizione sannitica di
Agnone. Altre iscrizioni votive si trovano nella zona meridionale dell’Umbria e
lungo il corso superiore dell’Aniene; ad Amiterno e presso i Vestini di Furfo
un mese mutua il suo nome proprio da Flora. Gli abitanti del Quirinale
portarono con sé la dea nella loro migrazione in terra romana.
Già è stato menzionato
Quirino. La sua assimilazione a Romolo non risale oltre il I secolo a.C. Il suo
nome ne indica l’ambito di appartenenza. Come il Palatino o Palatium deriva da
Pales, così il Quirinale deriva da Quirino. A Roma il culto di questo dio era
limitato al Quirinale. Ivi Quirino possedeva un sacellum, considerato il più
antico della città, affianco al quale sorse, a partire dal 293, un tempio più
sontuoso costruito col bottino delle guerre sannitiche.
Quirino era il dio
della guerra, o meglio il dio della guerra della comunità del Quirinale. Ivi
infatti Marte non possedeva alcun culto. Da ciò nasce l’ipotesi che la comunità
da cui sorse Roma, avessero due diverse divinità della guerra: il palatino
Marte ed il quirinale Quirino. In base a tale suddivisione il collegio sacerdotale
dei Salii era ripartito in palatini e collini (dal collis Quirinalis): gli uni
erano legati a Marte, gli altri a Quirino. Entrambe le solidates rimasero in
vigore anche dopo la fusione delle due comunità; questa bipartizione richiama
quella dei luperci, della quale si è parlato precedentemente.
Tale divisione
originaria si verifica anche in un altro caso. La triade Iuppiter, Iuno e
Minerva, di cui parleremo ulteriormente, faceva seguito alla triade più antica
costituita da Iuppiter, Mars e Quirinus. Accanto al dio sommo, nel cui culto si
incontravano entrambe le comunità, si collocavano le due divinità della guerra.
Ancora una parola sul
nome Mars. Appare sotto differenti forme: Mavors, Mars ed anche Mamers, tutte
denominazioni di lingua latina. Mars, come da tempo riconosciuto, si formò dal
più antico Mavors. Ma anche Mamers, successiva denominazione osca del dio, si
comprende solo nell’ambito del latino. Il più antico canto cultuale romano
–ossia il carmen arvale – conosce anche il vocativo Marmar. Il composito
iterativo che ne è alla base, al nominativo doveva suonare Marts-marts per
svilupparsi in Mamars e Mamers. Come da Mars si è formato il praenomen Marcus,
così Mamers da origine al corrispondente
Mamercus. Le iscrizioni paleo-arcaiche di Orvieto e quelle di una stips votiva
di Vejo, anch’essa risalente al VII secolo, riportano la versione Mamarce,
ripresa dall’etrusco. Qui il praenomen appare ancora nella forma che precedeva
l’indebolimento vocalico della seconda sillaba (causato dal protostorico
accento iniziale).
Anche nel calendario
si delinea questa dualità da cui si sviluppò Roma. Ma accanto a questo sistema
di divinità originarie delle due comunità, si sviluppa un terzo gruppo di
divinità, quelle che da un punto di vista linguistico rimandano all’Etruria:
Volcanus, Saturnus, Diva Angerona e Furrina. In tal modo tutte le popolazioni o
i clan che parteciparono alla fondazione di Roma, si ripropongono nel più
antico ordine festivo e divino.
Non può quindi
meravigliare che tra i più antichi dèi di Roma si trovassero anche divinità
greche. Volcanus nasconde sotto il nome etrusco il greco Efesto. Di Liber e del
suo rapporto con Dionysos ed Eleutheros si è già parlato. Ceres presenta una
perfetta corrispondenza con Demeter, sì da doversi identificare con questa.
Anche nel culto Roma non è libera dall’influsso greco. I ritrovamenti di
ceramica greca all’interno del più antico strato dell’urbe hanno la loro
corrispondenza nel calendario.
Il quadro fu
completato con gli scavi del tempio di Hera alla foce del Silaro, non lontano
da Paestum. Questi attestano che proprio nella prima metà del VI secolo
nell’Italia centrale esisteva una scuola di scultori nei cui lavori trovavano
espressione gli dèi ed i miti greci. Attraverso la sequenza dei rilievi delle
metope si poteva individuare come le scene fossero legate in una sequenza
narrativa.
La posizione dei Greci
non fu mai così forte da obbligare Etruschi, Latini e Romani, o altre
popolazioni dell’Italia centrale, ad assumere divinità straniere. L’assimilazione
di culti greci avveniva dappertutto per libera scelta. Né il potere politico,
né influssi economici possono chiarire l’antico e profondo radicamento degli
dèi greci. La loro forza e la loro capacità di seduzione era riposta solo in
loro stessi. Questi dèi rivelarono alle popolazioni italiche una natura che
fino allora era rimasta loro parzialmente o interamente nascosta: si trattava
di una realtà spirituale. Quel che si era cercato in Italia o che si era
percepito in immagine vaga, appariva ai Greci chiaro e tangibile. Assumendo
pertanto questa creazione greca, la realtà di queste potenze divine fu elevata
e prese contorni precisi.
Pertanto non è sempre
possibile delineare chiari confini tra quanto era proprio e quanto era stato
assimilato, tra elemento italico ed elemento greco. Significativi sono al
riguardo gli scavi nell’area sacra a nord del tempio dei Dioscuri ad Agrigento.
La successione degli strati archeologici indica che il culto di divinità ctonie
sicule si rifaceva senza soluzione di continuità a Demeter e a Persefone. E
quel che appare nella stratificazione archeologica viene confermato dalla
posizione geografica dei luoghi di culto. Una catena di divinità similari
unisce il culto di Demeter in Sicilia e nell’Italia meridionale all’Italia e
all’Etruria. In quest’ambito bisogna considerare Ceres e Flora presso i
Sanniti, i Latini ed a Roma, la capuana Damosia e l’etrusco-romana Anna
Perenna. Accanto a Demeter abbiamo Kore, la divina fanciulla; abbiamo Libera e
la figlia nel culto di Ceres di Agnone. Lo stesso spazio era occupato da
Dioniso nelle sue manifestazioni greche ed italiche.
Gli dèi greci ed il
mito greco non pervennero però a Roma per via diretta, almeno non al tempo dei
re. E’ già stata considerata e deve essere ulteriormente studiata la mediazione
etrusca. Il mito di Enea trasse origine dagli Elimi della Sicilia occidentale,
di Se gesta e del monte Erice, e da qui raggiunse il nord. Terracotte di Vejo
attestano che la leggenda prese piede verso la metà del V secolo nel sud
dell’Etruria e nella vicina Roma. Odisseo già nei versi finali della Teogonia
esiodea è indicato in compagnia di Circe al Circeo. Ma, come mostra il nome
Ulisse, tale mito non pervenne a Roma attraverso l’epos, ma attraverso la
mediazione illirica. Lo stesso vale per Metano o Messalo, in cui si rivela la
più antica forma di Poseidone, stallone e sposo della Madre Terra. Gli illiri,
più di altri popoli, mantennero elementi arcaici: le maschere dei morti, simili
a quelle micenee, la forma dei loro tumoli funerari nello stile delle loro
cittadelle e i motivi ornamentali della loro arte orafa.
Così attraverso il
calendario arcaico si rivela a Roma tutto il mondo divino preclassico greco.
Volcanus-Hephaistos, Liber-Dionysos, Saturnus-Kronos, la Madre Terra nelle sue
diverse epiclesi, Poseidon: queste divinità ci riportano ad uno strato
precedente quello degli dèi olimpici della poesia omerica. Anche nella vicina
Vejo, come mostra l’aritimi delle iscrizioni sacrali arcaiche, è ancora
conosciuta la divinità pre-omerica dell’Asia Minore. Nella cerchia delle
divinità indigene entrano Fauno, come “colui che azzanna la gola” e come lupo;
Pico, il picchio; Marte, lupo e toro: questi dèi mostrano ancora sembianze
animalesche. Polarità fra sorgere e tramontare, fra nascita e morte si
incontrano nella Madre Terra e nei Lari; elementi ctoni sussistono in Sol e in
Iuppiter. Solo successivamente quest’ultimo è stato liberato da ogni tratto
ctonio. Lo stesso legame con la natura, che si manifesta nelle forme
animalesche e nel rapporto con la terra, conduce al culto delle divinità dei
fiumi, di ruscelli e di caverne. Anche gli dèi greci assimilati richiamano
elementi naturali. Volcanus-Hephaistos costituiva l’elemento fuoco;
Ceres-Demeter era rappresentata come statua e Liber-Dionysos portava in
primavera la fioritura della terra, ma guidava anche le schiere dei morti.
La religione romana si
rivela dunque elemento della religione dell’Italia antica, parte di un insieme
che si prolungava verso il mondo egeo. Sarebbe però estremamente azzardato
supporre una iniziale omologazione in ambito religioso fra Roma e le altre
realtà politiche. Tutti gli elementi disponibili dimostrano invece che Roma sin
dall’origine mostrava un particolare carattere creativo, più originale e più
acuto che nelle popolazioni limitrofe. Anche se troviamo gli stessi dèi e le
stesse forme cultuali in altre zone d’Italia non si può misconoscere la
profonda differenza esistente fra Roma e l’Italia: una differenza nella forma
dello spirito.
Come prima considerato
in ambito italico come in quello romano gli dèi si manifestavano non nella loro
forma statica, ma in azioni ben determinate. Essi erano agenti ed attivi, come
si vede anche nella loro onomastica. Roma invece si distinse dal resto d’Italia
per il fatto che fissava l’atto divino atemporale in un momento ben preciso,
unico. Già negli dèi presenti nel più antico calendario festivo risaltava la
struttura storicamente e puntualmente costituita della concezione divina
romana.
A causa di questa
particolare concezione, Roma non si distinse soltanto dalle genti italiche, ma
anche dai Greci. L’evento temporalmente determinato assunse una importanza fino
allora sconosciuta. La concezione romana del divino inserito nella storia si
contrappose nella sua specificità all’essere degli dèi Greci posto al di sopra
ed al di fuori del tempo.
La posizione
particolare assunta da Roma non si limitava alla concezione divina. Roma aveva
concepito la propria esistenza come una creazione unica ed irripetibile, e sin
dall’origine questa consapevolezza viene rispecchiata nei suoi miti e nelle sue
istituzioni.
I re che regnarono
sulla città di Alba Longa, secondo le fonti, furono discendenti di Enea. Il
potere regale fu tramandato per successione ereditaria all’interno della stessa
stirpe. A Roma invece mancò una dinastia regale continua ed unitaria; e mai ci
si volle legare ai re di Albalonga e trarre da tale legame una qualche pretesa.
Al contrario, Romolo significò un nuovo inizio, concetto questo che fu
sottolineato con estrema decisione. Sua madre in effetti apparteneva alla
famiglia reale albana, ma come vestale perdette la sua intoccabilità, si diede
al dio. I figli, che nacquero da questo legame, furono abbandonati per ordine
del re albano e quindi cacciati dalla casa e dalla città. Una lupa alimentò i
gemelli Romolo e Remo. Come la madre che li allattò, i due gemelli erano dunque
lupi e nomadi tra i boschi, spintisi verso un ostile e pericoloso “fuori” ed
espulsi da ogni comunità. Essi si trovarono abbandonati a se stessi. Per cui
Romolo non ricevette il suo comando da Enea, ma basandosi soltanto sulla
propria forza edificò la nuova comunità, meritò il rispetto del suo gruppo e
con ciò il comando.
Roma stessa si
costituì, attraverso il mito, come realtà peculiare. Roma non fu eretta come
colonia di nessun’altra città. Essa, così come il suo fondatore, non ebbe una
origine regolare. Albani e Latini, uniti ai pastori che fin dall’inizio erano
stati i compagni di Romolo, costituirono la prima comunità. A questa si
aggiunsero fuoriusciti, delinquenti e banditi, come era stato del resto il
primo re, riunitisi nell’asilo sul Campidoglio. Anche successivamente nessun
Romano si volle considerare discendente degli Albani o dei Latini. Essi si
consideravano del tutto svincolati dall’ambiente circostante.
Di conseguenza nessuna
comunità vicina voleva avere a che fare con questa. I Romani dovettero persino
rubare le donne “Voi Romani avete offuscato la perfezione dell’essenza dello
Stato (latino), poiché avete accolto in esso Etruschi e Sabini, vagabondi,
spiantati e stranieri in gran numero”. Così Dionigi di Alicarnasso faceva
parlare l’albano Mezio Fufezio che si rivolgeva al re romano.
Roma si era affermata
attraverso le proprie gesta e la propria forza. Attraverso questa ed attraverso
la sua volontà si era costituita come comunità autonoma. Senza antenati e senza
uno specifico carattere etnico Roma non si era sviluppata spontaneamente ma era
stata voluta. Una volta è stato detto appunto che la città fu fondata su un
suolo straniero che originariamente non le apparteneva. E’ facile capire quel
che si intendeva con tale espressione. Tutto il suolo sul quale si estendeva
Roma fu conquistato con la forza delle armi. E ciò non vale solo per le
conquiste successive: anche il suolo originario, il suolo della patria, era
stato conquistato con le armi. Si ribadisce che questo suolo non fu né acquistato,
né regalato, né ricevuto come favore. Questo tipo di Stato sapeva di poggiare
completamente sulla propria forza.
Queste concezioni
risalivano a tempi antichissimi. E’ stata prima sottolineata l’antichità del
mito di Enea. Un asilo sul Campidoglio risale probabilmente alle origini di
Roma, al VI secolo. Ma già la più antica legislazione di Roma, le XII Tavole,
risalenti alla metà del V secolo, non conteneva più nulla di un diritto
d’asilo. Certamente non si sa se originariamente l’asilo fosse stato in rapporto
con il fondatore della città, tuttavia un altro monumento ne testimonia
l’antichità: la lupa bronzea del Campidoglio. Visto che fu eseguita verso la
fine della monarchia, vuol dire che già era diffusa a Roma la leggenda di
Romolo.
Quel che aveva contraddistinto
il primo re di Roma, valse anche per i successori: la mancanza di ogni legame
di sangue. Essi non erano assolutamente discendenti ed eredi di Romolo, e non
appartenevano ad un unico clan. Qualcuno non era neanche originario di Roma. Lo
stesso storico che ha riportato la testimonianza su Roma messa in bocca a Mezio
Fufezio, così si espresse: “Dunque voi avete preso il vostro comando dallo
straniero, ed anche il vostro senato è composto per lo più di immigrati”.
Ciò lo si può
verificare anche da un punto di vista linguistico. La parola germanica per
indicare il re (germanico chuning, tedesco Konig) è legata ll’idea di stirpe.
Ha la stessa radice di genus e genos. Discendenza, famiglia regante e sangue
reale ne costituiscono i presupposti denotativi. Ben diverso è l’ambito
semantico del rex romano. Tale termine contrassegna colui che tiene il comando,
che si estende su un dominio che viene reso dal termine tedesco “Reich”,
costruito sulla medesima radice di rex. Qui non c’entra la discendenza, ma viene
espresso il principio che si afferma proprio nella leggenda dei re di Roma.
Ciò vuol dire che non
si evidenzia a Roma assolutamente alcun sengo che provi una discendenza
ereditaria o una qualsiasi rilevanza data alla famiglia reale. Non si riconosce
alcun ordine di successione. Tutti i re, ad eccezione di Numa e di Anco Marzio,
morirono , secondo le fonti, di morte violenta. Numa e Tarquinio Prisco non
erano neppure romani. L’uno era sabino, l’altro proveniva dall’Etruria. Servio
Tullio era schiavo di nascita ed Anco, figlio di donna non maritata, era
considerato nipote di Numa, ma non per discendenza maschile. L’unica vera
successione dinastica si ebbe con i due Tarquini, ma con l’interruzione di
Servio Tullio ed in seguito a un assassinio. Del resto la tradizione condannò
all’unanimità i due Tarquini in quanto tiranni e consideravano giusta la loro
cacciata.
Questo principio
dell’esclusione di ogni successione fondata sul sangue nell’ambito della
monarchia romanaè ben saldo e non ammette eccezioni. A ciò corrisponde una
struttura simile in ambito divino.
Il re ha in Giove, la
divinità somma, il suo corrispettivo: anche questi era ugualmente un isolato.
Egli non possedeva un padre divino, non aveva moglie né discendenti. La
concezione di paternità gentilizia come il concetto di famiglia gli erano
estranei. Questa specificità del culto dello Iuppiter romano la verifichiamo dalla particolarità del culto capitolino.
Esso si differenziava da tutti i culti italici di Giove: si legava soltanto
alla monarchia di Roma.
Il rapporto tra il dio
del cielo ed il re non si limita alla comune opposizione all’idea genetica. Piuttosto
si esprime in un procedere parallelo delle due figure sfociante in un quadro
conchiuso e significativo.
Di nuovo ci da notizia
di ciò il calendario festivo arcaico. La regalità, dopo aver esaurito il suo
ruolo politico, ha continuato a vivere nel culto: il rex sacrificulus assunse
le incombenze che un tempo aveva il monarca. Le fasi lunari regolavano i
compiti del re all’interno di ciascun mese. All’inizio della prima fase egli
salutava l’apparire della luna nuova con un sacrificio; con l’inizio della
seconda annunciava le feste dell’intero mese. Inoltre il re svolgeva un ruolo
specifico nel Regifugium del 24 febbraio, celebrazione che da lui prendeva il
nome. La festa coincideva, in base al mese lunare calcolato di trenta giorni,
con l’inizio dell’ultimo quarto lunare. Ma questa volta al re non spettava né
un saluto né una predizione. Egli celebrava la fine dell’anno con la sua fuga
dal comitium: viveva cioè il rito in prima persona.
Da sottolineare è la
connessione con la regalità etrusca. Gli etruschi salutavano infatti
pubblicamente il loro signore all’inizio di ogni quarto di luna ed in tale
circostanza gli rivolgevano domande sulle questioni dello Stato rimaste in
sospeso. Anche qui si determinava l’apparizione pubblica del re attraverso le fasi
lunari, ma questa volta anche in ambito politico e non solo cultuale.
Tuttavia la posizione
del re romano era più significativa della figura del sovrano etrusco. Il mese
presso i Romani originariamente designava anche la luna, la quale, nella
sequenza mensile determinava l’annualità. Era pertanto logico che il re sottolineasse la fine dell’anno con
una fuga rituale. Come appare consequenziale che il re fosse in stretto
rapporto con questo elemento celeste dal quale dipendeva e attraverso il quale
si manifestava lo scorrere del tempo.
Nella Roma
repubblicana il generale in trionfo rappresentava nella sua persona Iuppiter
Optimum Maximus. Il cocchio trainato da quattro cavalli bianchi corrispondeva
al carro del dio del cielo e del sole, e la toga ornata con stelle dorate del
trionfatore rappresentava il mantello stellato del cielo, appannaggio di Giove.
La corona d’oro, che lo schiavo pubblico reggeva sulla testa del vincitore,
apparteneva al tesoro del tempio capitolino. Il trionfatore aveva in comune con
Giove anche lo scettro, per cui tutti gli ornamenti del trionfo erano segni del
dio. A imitazione della figura cultuale posta nel suo tempio, il rappresentante
umano di Giove doveva colorarsi la faccia di minio ed anche ciò attesta la sua
identificazione col dio.
D’altro canto era
detto chiaramente che l’abito del trionfatore era stato quello del re romano.
Ciò indica che, prima dell’istituzione del trionfo, il re, per il suo abito,
costituiva l’immagine del dio del cielo. Altro dato significativo era che
l’ordine celeste alla base dell’anno del re, si identificava con la sua
persona.
A Giove non competeva
soltanto il luminoso cielo diurno. A lui appartenevano anche le Idi, giorni di
luna piena in cui risplende chiarissima la volta celeste notturna. Tutte le
luminosità celesti appartenevano al dio che esprimeva nel suo nome questa
proprietà. A lui corrispondeva a Roma una regalità sacrale, la cui forma era
determinata dal rapporto con i fenomeni cosmici.
Gli Etruschi diedero
un contributo fondamentale alla costituzione di questa regalità. Da loro fu
presa la denominazione di idus per il giorno di luna piena; la luna del resto
regolava anche le funzioni del re etrusco e non solo di quello romano. Erano
etruschi l’usanza del trionfo e l’abito del trionfatore. Mentre si evidenzia
l’elemento romani nell’estensione della regalità al ciclo annuale e all’ordine
celeste. Questo si collega con il rifiuto della successione ereditaria, di una
dinastia reale, del sangue reale. Anche in ciò appare un elemento che dimostra
l’unicità di Roma: l’idea particolare che si manifesta nell’immagine di Giove.