«Il nazionalsocialismo
può rivendicare il merito di aver sviluppato la personalità al massimo grado,
ma in favore e non contro la comunità. Ciò che noi abbiamo in tal modo
raggiunto è il vero socialismo“.
Robert Ley (Deutsche
Arbeitsfront)
I cinquant’anni che
seguirono il rogo di Berlino, contrassegnati dal dogma del nuovo verbo
democratico e dall’occupazione sovietico-statunitense del Continente, si
contraddistinsero altresì per un appiattimento dell’analisi politica
all’interno dell’angusto sistema dialettico che è stato ultimamente definito
politicamente corretto. In seno ad esso le sporadiche voci di dissenso
politico-culturale furono costantemente messe ai margini non solo – ovviamente
– della sfera istituzionale, in quanto categoricamente escluse da ogni forma di
gestione del potere, ma anche da quella del riconoscimento culturale tout
court, dovendo subire ogni giorno i poderosi attacchi della propaganda che le
relegava – demonizzandole – alla cattività sociale, ovvero alla più rigorosa
damnatio memoriae.
Questo scenario di
oppressione e decadenza, per quanto ulteriori margini di involuzioni non
potessero essere previsti – si pensava di essere alle tenebre della mezzanotte,
quando si era solo al crepuscolo di mezza sera – trovò nei vent’anni
successivi, i due decenni appena trascorsi, una nuova recrudescenza. Fino alla
fine del lungo dopoguerra, che possiamo fare convenzionalmente coincidere col
1990, il dibattito politico, sociale ed economico conferiva infatti ancora –
per quanto nell’ambito dell’analisi di fenomeni politici comunque decadenti –
una sorta di dignità e di riconoscimento culturale al totalitarismo.
L’esistenza dell’Unione Sovietica e delle «democrazie popolari» nei Paesi
dell’Europa orientale e il sostegno (inizialmente incondizionato, in seguito
sempre più tiepido) che a tali entità statuali conferivano i partiti comunisti
dell’Occidente delineavano una legittimazione di fondo al fatto che un modello
politico, se portatore di giustizia sociale ed elevatore della condizione
umana, potesse essere imposto, anche attraverso gli aspetti più esteticamente
coercitivi tipici dei regimi totalitari. Non fosse stato applicato al marxismo
burocratico ed economicistico, che di «socialista» portava indegnamente il
nome, il ragionamento non avrebbe fatto una grinza.
Si consideri l’esempio
di due malati neurologici. Il primo ha delle sporadiche carenze di lucidità in
un contesto anamnestico di normalità, il secondo si aggira per le strade con lo
scolapasta sulla testa e lancia pietre ai passanti. A differenza del primo, col
quale i medici potranno concordare congiuntamente un percorso terapeutico, al
secondo la terapia dovrà essere somministrata in via coercitiva, per il bene
suo e pro rei publicae salutis. E proprio quindi a un malato all’ultimo stadio
(che tra l’altro non ha neanche coscienza della sua patologia) che è
paragonabile senza mezzi termini la società mercantilistica d’occidente, ed è
proprio nel trattamento «sanitario» obbligatorio che risiede il valore positivo
del totalitarismo. In ispecie quando occorra riconvertire gli animi, le
coscienze e le strutture dello Stato a uno schema socioeconomico socialista,
che andrà necessariamente a cozzare contro gli istinti primordiali e predatori
che la società capitalista ha esasperato elevandoli all’ennesima potenza. Se
questo discorso è stato eziologicamente fondato nella sua applicazione ai
sistemi parasocialisti-marxiani europei della seconda metà del ventesimo
secolo, in maggior ragione lo è relativamente ai fascismi europei e alle forme
politiche del Terzo Reich nazionalsocialista, in cui la ristrutturazione in
chiave socialista della società era corollario di una più ampia restaurazione
dell’umano che avrebbe svincolato il Volk, comunità organica di destino, dal
dogmatismo economicistico capitalista-borghese, dall’umanesimo cosmopolita
giudaico-cristiano e dal reificante messianesimo burocratico marxista.
Una sorta di
nichilismo istituzionale manifestatosi nel – e dal – cuore d’Europa tra gli
anni Trenta e Quaranta del secolo scorso che la critica politica contemporanea
umilia rimarcandone esclusivamente (oltre alle trite leggende holocaustiche)
gli aspetti più esteriori della gestione del potere, senza i quali non sarebbe
stata neppure ipotizzabile la massiccia spinta rivoluzionaria che da Berlino si
irradiò nel continente europeo accendendo le braci – sopite ma mai spente – del
socialismo prussiano e del nuovo nazionalismo socialista.
Piaccia o meno,
infatti, il Terzo Reich fu anche uno Stato socialista, il crogiuolo politico e
istituzionale in cui prenderà forma il vero socialismo del XX secolo, un
socialismo erede della millenaria tradizione germanico-europea, un socialismo
radicale nel suo mirare alla definitiva eradicazione (anche nel campo
extra-economico) del morbo borghese e della mentalità mercantile. Ed ancora un
socialismo allo stesso tempo istituzionale nella sua attuazione di strutture
sociali, economiche e assistenziali volte alla preservazione del benessere,
della sobrietà e della elevazione extramorale del popolo, un socialismo,
infine, attuale in quanto consapevole della necessità contingente di blindare
le conquiste popolari in un contesto politico totalitario e di militarizzazione
sociale volto alla difesa dai nemici interni (il risorgere di tendenze
borghesi, il potere residuale del capitalismo bancario) ed esterni (le
plutocrazie capitaliste e marxiste che contro il Reich scatenarono la più
violenta guerra d’aggressione che la storia ricordi).
Svincolamento dalla
finanza internazionale ed eradicazione dell’indole borghese.
Nella storia
dell’economia, l’evento che ha contrassegnato il passaggio epocale tra la
società tradizionale e la decadenza della modernità è stato segnato
(contestualmente ai prodromi del capitalismo moderno) dallo slegamento delle
dinamiche e delle politiche economiche delle società e degli Stati da quella
che può essere definita «economia reale» e il loro avvicinamento alla fumosa
«economia finanziaria». Per economia reale si intende quella che può essere
tangibilmente percepita dal popolo, che vede sotto i propri occhi la ricchezza
dello Stato nascere dal proprio lavoro e trasformarsi in benessere collettivo e
servizi, in sicurezza militare e tutela sociale, nella casa e nel pane, nella
tranquillità per il proprio futuro scaturita da una corretta gestione del
presente.
È la sola economia
possibile, che per sua natura non può che essere stata socialista ante
litteram, escludendo a priori ed essendo la naturale antitesi all’accumulazione
e alla predazione capitalista, sia questa gestita da apparati statali o da
privati. L’economia finanziaria è invece quel complesso di norme e consuetudini
che «regolano» i processi di arricchimento di ristretti e parassitari settori
della società e prescrivono, finché è possibile, il mantenimento di una parvenza
di adeguato tenore di vita alla parte politicamente più rilevante della
società, che si lascerà così addomesticare al ruolo di guardiana del sistema:
la borghesia. L’economia finanziaria si basa sulla speculazione, sulla
ricchezza nominale delle Borse, sui prodotti finanziari, sulle fluttuazioni dei
mercati, su un sistema di costante prevaricazione esercitato dalle banche su
popoli e governi e – non ultimo – sul signoraggio monetario di cui queste si
arrogano la titolarità, sulla creazione cioè di ricchezza dall’emissione di
moneta prestata, quindi addebitata agli Stati all’atto dell’emissione.
Proprio con la
liberazione dal giogo bancario mosse i primi passi la nuova economia del Reich,
consapevole del fatto che gli errori, in economia come in ogni campo dell’esistenza,
sono sempre nelle premesse e che senza tale fondamentale prerequisito non
sarebbe stata possibile la radicale trasformazione della società tedesca in
chiave nazionale e socialista. Già nel 1933, infatti, il rilancio dell’economia
fu fondato sul marco, per il quale fu imposto il corso forzoso e la non
convertibilità in oro. Il reichsmark divenne così lo strumento della
pianificazione, il cui valore sarebbe stato quindi garantito esclusivamente
dalla ricchezza e dalla stabilità del nuovo Stato, il quale a sua volta ne
avrebbe difeso la tenuta attraverso le prime misure fiscali realmente popolari
che penalizzavano le rendite finanziarie e – soprattutto – tramite le nuove
disposizioni inerenti le banche, disposizioni che manifestarono storicamente (e
che nei secoli a venire testimonieranno) la portata epocale, la straordinaria
potenza e la ferrea determinazione della rivoluzione nazionalsocialista.
Numerose banche
private furono infatti nazionalizzate, e sulle banche che restavano in mani
private erano esercitate funzioni di controllo progressivamente crescenti da
parte di appositi istituti pubblici. Per quanto riguarda la Reichsbank, una
serie di disposizioni legislative che presero avvio con la legge del 27 ottobre
1933 e culminarono con quella del 16 giugno 1939, liberarono l’istituto
bancario dalla perniciosa tutela della finanza internazionale (tutela
esercitata tramite la Banca dei Regolamenti Internazionali), stabilirono che il
suo presidente e i maggiori funzionari dovessero essere nominati dal Presidente
del Reich e la trasformarono di fatto in un Ente dello Stato. Prendeva così
corpo, nell’Europa del ventesimo secolo, la più eretica delle eresie: la
riappropriazione nazionale e popolare dell’Istituto bancario centrale di
emissione (e taluni ancora pensano che la guerra mondiale iniziò per Danzica!).
I provvedimenti
legislativi a tutela del nuovo corso economico socialista tedesco,
strutturalmente orientati in una pianificazione quadriennale, non si fecero
attendere e furono nel loro complesso orientati alla definizione della figura
del nuovo cittadino del Reich, che era liberato dalla servitù economica cui era
sottoposto durante il precedente periodo di dittatura liberale e veniva
finalmente vincolato a un patto nazionale che sarebbe tornato a conferire
vigore all’economia tramite la repressione dell’indole borghese e la
sottomissione dell’economia alle direttive politiche del Governo e dello Stato.
Tali provvedimenti legislativi furono chiosati con efficacia dal decreto del
primo dicembre 1936, che così recitava al suo articolo 1: «Ogni cittadino
tedesco che, consciamente o inconsciamente, spinto da basso egoismo o da
qualsivoglia vile sentimento, avrà contravvenuto alle disposizioni legislative,
causando in tal modo un grave pregiudizio all’economia tedesca, potrà essere
condannato a morte e subire la confisca dei beni».
In un tale contesto lo
sviluppo economico avrebbe quindi potuto affermarsi solo sui solidi binari
dell’economia «reale», di produzione, un’economia intesa come servigio reso allo
Stato e quindi alla comunità nazionale totalitariamente concepita: il Volk.
Nel dominio
dell’agricoltura nazionale, la Neuadel aus Blut und Boden, la nuova nobiltà di
sangue e suolo delineata e auspicata nell’analisi politica del Ministro
dell’agricoltura Richard Walter Darre, trovò compimento e realizzazione
nell’istituto giuridico dell’Erbhof, istituito dalla legge 29 settembre 1933,
completata dal decreto 21 dicembre 1936. L’Erbhof, catalizzatore dello spirito
del contadinato germanico e decantatore politico dell’aristocrazia agraria
socialista del nuovo Stato tedesco, consisteva nell’unità base dell’ambiente
rurale nazionale che le famiglie di sangue germanico tramandavano ai loro
discendenti e che era categoricamente esclusa da qualsivoglia negozio giuridico
di natura capitalistica, quali la compravendita, l’alienazione totale o
parziale, l’ipoteca.
La legge sull’Erbhof
sortì quindi un duplice effetto ed ebbe una duplice manifestazione
nell’affermazione pratica e nell’istituzionalizzazione della dottrina
socioeconomica nazionalsocialista: innanzitutto quella per cui la legislazione
statale si trovò a coincidere con le istanze di tutela nazional-razziale della
società promuovendo, appunto, l’indissolubile vincolo tra Blut e Boden (sangue
e suolo); la seconda fu invece la dimostrazione del livello di straordinario
avanzamento sociale del contadino germanico il quale, in quanto ancora
vincolato a un modello sociale e di sviluppo tradizionale e millenario, riuscì
a fare propria, con completa naturalezza, una riforma politica intrinsecamente
socialista senza che de iure si eliminasse la proprietà privata sul bene (un
bene di profonda utilità sociale quale il terreno agricolo), misura che in
contesti di decadenza come l’attuale potrebbe invece rendersi totalitariamente
necessaria al fine di contrastare le resistenze «proprietarie» di quello che
oggi è il contadino-borghese. All’agricoltore, il Bauer, nazionalsocialista era
pertanto concessa quella libertà che – ci si figuri oggi – già all’epoca era
privilegio degli uomini più liberi, la libertà suprema, quella cioè derivante
dalla consapevolezza di se stessi e dal radicato senso di responsabilità
nazionale: la libertà di padroneggiare la proprietà privata senza il rischio
che la proprietà padroneggiasse sul possessore, secondo le regole di
esasperazione dell’accumulo di ricchezza che vigono nelle società ad economia
capitalista.
Nel campo della
produzione industriale si manifestò in maggior misura la propensione delle
autorità del Terzo Reich allo sviluppo della dimensione tangibile dell’economia
nazionale, alla promozione di quell’economia reale e popolare libera dai
condizionamenti della finanza internazionale e facente perno e leva
sull’obiettivo primario, consistente nell’elevazione sociale del popolo. In
seno alle direttive stabilite dal Piano economico quadriennale e forti della
stabilità conferita dalla nazionalizzazione del sistema bancario e monetario,
si stabilì pertanto di indirizzare la volontà economica dello Stato nella
direzione dell’incremento massiccio della produzione, della razionalizzazione
del consumo attraverso il controllo da esercitarsi sulla domanda e
sull’offerta, a livello tanto microeconomico quanto macroeconomico, dello
sviluppo della rete logistica di distribuzione, dei trasporti e dei servizi e,
quale naturale conseguenza, del conseguimento dell’autosufficienza economica,
condizione necessaria per Berlino a tutelarsi dall’ostilità internazionale di
cui era vittima già dagli albori della rivoluzione, a causa del massiccio
sabotaggio economico e della dichiarazione di guerra mercantile dichiarata al
nuovo Reich dalla finanza ebraica internazionale.
La metodologia
operativa che sottese la rinascita industriale tedesca prevedeva il ruolo guida
del Governo e segnatamente del Ministero dell’economia nazionale nella gestione
dei cartelli obbligatori che, istituiti con la legge del 15 luglio 1935,
avrebbero regolamentato le dinamiche produttive del sistema industriale
germanico. Tra questi «cartelli», in base a una visione più che mai organica
dell’economia politica, era prevista la fattiva collaborazione e
compensazione/compenetrazione reciproca nell’interesse del più alto fine comune
della complessiva crescita economica nazionale; a tal fine rivestivano un ruolo
fondamentale le funzioni ispettive e direttive del Ministero, il quale si
avvaleva altresì della collaborazione di un Commissariato per il controllo sui
prezzi le cui deliberazioni rivestivano valore fortemente limitante al libero
arbitrio che taluni settori della produzione avrebbero potuto far proprio
appunto in quanto «cartellizzati». Alle autorità ministeriali spetterà inoltre
il ruolo di coordinamento e direzione delle nuove Camere economiche, agile e
funzionale trait d’union posto in essere dal governo nazionalsocialista per
coniugare il Volk al sistema produttivo, avente funzioni di controllo
sull’operato delle imprese e di educazione politica al nuovo corso socialista e
nazionale. Completeranno il quadro di sviluppo industriale una cospicua quota
di partecipazioni statali e il lancio di un piano di potenziamento della rete
dei trasporti, sia su gomma che su rotaia, tramite la realizzazione di grandi
opere di viabilità pubblica.
La formazione dei
lavoratori dello Stato all’onore sociale
Se il quadro
complessivo del sistema economico e produttivo tedesco conferisce – pur se
attraverso una trattazione sommaria – un senso di completezza, funzionalità e
organicismo e desta meraviglia se rapportato alla effettiva brevità temporale
della parabola politica del Terzo Reich nazionalsocialista, è solo attraverso
lo studio delle politiche sociali e del lavoro che può comprendere in pieno la
portata epocale e sovraumana di quella rivoluzione. Le strutture portanti del
sistema sociale della nuova Germania affondano le proprie radici nella
tradizione europea e declinano con verbo moderno il lascito socialista,
nazionale e comunitario che questa ci ha tramandato, dopo aver spiccato il volo
sulle ali dell’aquila romana e aver viaggiato per secoli attraverso le antiche
sippe -famiglie, in senso ampio, che furono le prime istituzioni germaniche -,
attraverso la civiltà carolingia, attraverso il socialismo prussiano fino a
giungere al bagliore delle prime bandiere rosse, bianche e nere.
La più alta
manifestazione della tutela nazionalsocialista sul lavoratore e sul cittadino
del Reich è senza dubbio alcuno rappresentato dai tre nuovi istituti statuali denominati
Commissariati del lavoro, Tribunali dell’onore sociale e Fronte del lavoro
tedesco.
I Commissariati del
lavoro avevano mansioni di vigilanza ed educazione popolare sul rispetto del
nuovo spirito nazionalsocialista nell’ambito dei rapporti tra sistema
produttivo e lavoratori, dirimevano i conflitti che sarebbero sorti, fissavano
i parametri salariali; favorivano, insomma, lo sviluppo armonioso delle
attività produttive e facevano riferimento diretto al Ministero dell’Economia.
I Tribunali dell’onore sociale rappresentavano la quintessenza
dell’istituzionalizzazione della rivoluzione nazionalsocialista: rivestivano
mansioni ispettive, inquirenti e sanzionatone nei confronti degli eventuali
soprusi dei datori di lavoro e delle imprese nei confronti dei lavoratori, e
quindi del Volk, dello Stato. Avevano finanche il potere di ammonire,
sanzionare e addirittura esautorare i dirigenti d’azienda che non si fossero
adeguati al nuovo corso politico nazionalpopolare e che avessero tentato di
restaurare istituti giuridici e giusla-voristici del precedente regime
liberale. In tali tribunali, poderosa barriera eretta a difesa dell’onore
sociale dei cittadini del Reich (e che nei tempi moderni avrebbero dovuto
lavorare a pieno regime…) erano strutturalmente inseriti rappresentanti della
Daf, il Fronte del lavoro tedesco, emanazione sindacale della Nsdap e custode
della regola nazionalsocialista all’interno del mondo del lavoro nel suo
complesso.
Associazione unificata
al di sopra e contro il frazionismo sindacale liberale e il classismo sindacale
marxista, aderente al Partito nazionalsocialista, la Deutsche Arbeitsfront
poteva contare sulla totalitaria adesione di tutti i lavoratori del nuovo Reich
(il numero di iscritti raggiunse i venticinque milioni e quattro milioni furono
le imprese aderenti) e quello che rivestiva era un ruolo sociale di importanza
tale da non poter essere paragonato a quello di nessuna altra struttura dello
Stato e del partito. Tra le sue funzioni vi erano quelle di educazione dei
lavoratori alla dottrina politica nazionalsocialista, l’educazione
professionale, l’insegnamento dei mestieri, la protezione e la difesa dei
lavoratori, il collocamento, l’assistenza giuridica, l’emissione di incentivi
alla produzione e la gestione dello svago e del dopolavoro attraverso la sua
branca denominata Kraft durch Freude (Forza attraverso la Gioia), allora la
maggiore organizzazione di tale genere in tutto il mondo. Congiuntamente e
parallelamente alla KdF esercitava le proprie funzioni il Nationalsozialistische
Volkswohlfahrt (Nsv), l’Organizzazione nazionalsocialista per il benessere
popolare, la struttura di assistenza e di soccorso sociale del Terzo Reich.
La reale natura
dell’assistenzialismo nazionalsocialista è egregiamente descritta da uno dei
suoi massimi dirigenti, Werner Reher: «In tutti i paesi civilizzati esistono
delle organizzazioni per l’assistenza sociale che debbono la propria origine e
il proprio mantenimento all’iniziativa privata. Alcune di queste operano sotto
l’egida di confessioni religiose [...]. L’idea che ispira tutte loro scaturisce
dal principio cristiano di amore per il prossimo [...]. Il desiderio e lo scopo
di tutte queste iniziative è quello di favorire una politica sociale mediante
la quale il disagio economico del singolo divenga perlomeno sopportabile. Il
principio di base è, pertanto, che la povertà sia una condizione permanente
nella quale una determinata classe sociale deve vivere. [...] Predicare e
praticare questo principio indebolisce la resistenza morale di coloro che si
trovano ad aver bisogno di aiuto». Spinta rivoluzionaria anche nell’assistenza
sociale, dunque, secondo quanto prescritto dal governo dello Stato socialista
del Reich germanico. Dove non c’era più posto per lo stucchevole piagnisteo
dell’elemosina cristiana e dove gli altari del pietismo e della rassegnazione
venivano finalmente soppiantati dalla fede nella comunità nazionale del Volk.
Tant’è che i risultati
conseguiti dal Nsv non si fecero attendere a lungo e già nei primi anni, dopo
il 1933, erano decine di migliaia le situazioni di difficoltà alleviate dalla
solidarietà nazionale del popolo e del governo sotto forma di beni alimentari e
di prima necessità nonché di investimenti al fine di eradicare le cause che
possono aver visto protrarsi lo stato di indigenza dei cittadini in alcune zone
del Reich. Numerose furono inoltre le iniziative volte all’incentivo alla
natalità tramite il sostegno alla maternità (lavoro femminile, asili nido,
assistenza), curate dalla sezione Mutter und Kind (Madre e figlio)
dell’organizzazione di assistenza sociale nazionalsocialista.
Cos’accadde quindi nel
cuore d’Europa nel bel mezzo del XX secolo? Nel pieno della sua notte buia, la
«modernità» si fermò. La decadenza fu invertita. L’economia, in un clima
continentale di follia mercantilistica e finanziaria, tornò a essere l’unica
economia possibile: dallo Stato e dal popolo per lo Stato e per il popolo, per
la nazione e per il socialismo. E il mondo tornò «ai ritmi di sempre».