Uno dei segni del
fatto, che il corso della storia ha rappresentato, fuor dal piano puramente
materiale, tutt’altro che un progresso, è dato dalla povertà delle lingue
moderne rispetto a molte lingue antiche. Non vi è una delle cosidette “lingue
vive” occidentali che, per organicità, articolazione e plasticità regga il
confronto, ad esempio, col latino antico o col sanscrito. Fra le lingue di
ceppo europeo, forse il solo tedesco ha conservato qualcosa della struttura
arcaica (ed è per questo che la lingua europea ha fama di essere “così
difficile”), mentre la lingua inglese e quella dei popoli scandinavi hanno
parimenti subito un processo di erosione e di appiattimento. In genere, si può
dire che le lingue antiche cui accenniamo erano tridimensionali mentre quelle
moderne sono bidimensionali. Il tempo ha agito anche qui in senso corrosivo; ha
reso “pratiche” e “fluide” le parlantine a scapito, appunto, dell’organicità.
È, questo, un riflesso di quanto si è verificato in molti altri domini della
cultura e dell’esistenza.
Anche le parole hanno
una loro storia e spesso il mutamento subito dai loro contenuti è un
interessante indice barometrico di corrispondenti mutamenti della sensibilità
generale e della visione del mondo. In particolare, sarebbe interessante fare
un confronto fra il significato che alcune parole ebbero nell’antica lingua
latina e quello che è proprio a termini corrispondenti, rimasti quasi uguali,
della lingua italiana e anche spesso di altre lingue romanze. In genere, si può
osservare una caduta di livello. Il senso più antico o è andato perduto, o
sopravvive in forma residuale in qualche particolare eccezione o locuzione,
senza più corrispondere a quello ormai generale e prevalente, o, ancora, appare
del tutto distorto e di frequente banalizzato. Indicheremo qualche esempio.
Il caso più tipico e
noto è forse costituito dalla parola virtus. La “virtù” in senso moderno non ha
quasi nulla a che fare con la antica virtus. Virtus significava forza d’animo,
coraggio, prodezza, saldezza virile. Si legava a vir, termine designante l’uomo
come veramente tale, non come uomo in senso generico e naturalistico. La stessa
parola nella lingua moderna ha assunto, invece, un senso essenzialmente
moralistico, spessissimo associato a pregiudizi sessuali, tanto che riferendosi
ad esso Vilfredo Pareto ha coniato il termine “virtuismo” per designare la
morale puritana e sessuofoba borghese. In genere dicendo “persona virtuosa”
oggi si pensa a cosa ben diversa da quel che, con una reiterazione assai
efficace, potevano significare, ad esempio, espressioni come questa: vir
virtute praeditus. E la differenza non di rado può trasformarsi quasi in una
antitesi. Infatti un animo saldo, fiero, intrepido, eroico è il contrario di
ciò che significa una persona virtuosa nel senso moralistico e conformistico
moderno.
Il senso di virtus
come forza efficiente si è mantenuto soltanto in certe locuzioni particolari
moderne: la “virtù” di una pianta o di medicamento, in “virtù” di questa o
quella cosa.
Honestus. Connesso con
l’idea di honos, questo termine anticamente ebbe il significato prevalente di
onorevole, nobile, di nobile rango. Che cosa, di ciò, si conserva nel termine
moderno corrispondente? “Onesta” è la persona dabbene della società borghese,
quella che non compie proprio cattive azioni. L’espressione “nato da onesti
genitori” oggi ha perfino una sfumatura quasi ironica, mentre nella Roma antica
era la designazione precisa di una nobiltà di nascita, cui spesso corrispondeva
anche una nobiltà biologica. Vir honestia faciesignificava, infatti, uomo di
prestante aspetto, allo stesso modo che nell’antica lingua sanscrita il termine
arya comprendeva sia il senso di una persona degna di onore, sia quello di una
nobiltà tanto interiore quanto del tipo somatico.
Gentilis, gentilitas.
Oggi ognuno pensa alla persona cortese, affabile, di buone maniere. Il termine
antico rimandava invece al concetto di gens, di stirpe, di razza, casta o
lignaggio. Era “gentile”, romanamente, chi aveva le qualità che derivano da un
lignaggio e da un sangue differenziato, le quali solo per riflesso possono
determinare eventualmente un contegno di distaccata cortesia, cosa diversa
dalle “maniere” che anche il parvenu può far proprie studiandosi il galateo – e
diversa, anche, dalla vaga nozione moderna della gentilezza. E’ così che oggi
pochi possono capire il senso pieno e più profondo di espressioni come “spirito
gentile” e simili, rimaste come isolati prolungamenti in scrittori di altri
tempi.
Genialitas. Chi è
“geniale”, oggi? Un tipo prevalentemente individualistico, ricco di trovate
originali, estroso. Come limite, si ha il genio nel campo artistico, il culto
feticistico tributato al quale nella civiltà umanistica e borghese è noto,
tanto che il genio, più che non l’eroe, l’asceta o l’aristocrate, è stato
spesso considerato, in tale civiltà, come il più alto tipo umano. Il termine
latino genialis allude invece a qualcosa di ben poco individualistico e
“umanistico”. Esso deriva dalla parola genius, la quale originariamente designò
la forza formatrice e generatrice interna, spirituale e mistica, di una data
gente o di un dato sangue. Non è dunque azzardato affermare che le qualità
geniali nel senso antico ebbero una certa relazione con quelle che,
nell’accezione più alta, si possono dire appunto di “razza”. In opposto alla
significazione moderna, l’elemento geniale si distingue da quello
individualistico e arbitrario; si lega ad una radice profonda, obbedisce ad una
necessità interiore per una aderenza più superpersonali di un sangue e di una
gente, a quelle forze a cui, in ogni senso gentilizio, si connetteva, come è
noto, anche una tradizione sacrale.
Pietas. Non occorre
dire che cosa significhi oggi una “persona pietosa”. Si pensa ad un
atteggiamento sentimentale più o meno umanitario, sensitivo – e “pietoso” è
quasi sinonimo di compassionevole. Nell’antica lingua latina la pietas
apparteneva invece al dominio del sacro, designava lo speciale rapporto in cui
l’uomo romano stava con le divinità in primo luogo, poi con altre realtà legate
al modo della Tradizione, compreso lo stesso Stato. Di fronte agli dèi, si
trattava di un atteggiamento di calma, dignitosa venerazione: sentimento di
appartenenza e, nel contempo, di rispetto, di memore riferimento, anche di
dovere e di adesione, come potenziamento dello stesso sentimento suscitato
dalla figura severa del pater familias (donde la pietas filialis). Come si è
accennato, la pietas poteva manifestarsi anche nel campo politico: pietas in
patriam significava fedeltà e dovere rispetto allo Stato e alla patria. In
alcuni casi, la parola in quistione ammette anche il significato di iustitia.
Colui che non conosce la pietas è anche l’ingiusto, quasi l’empio, è colui che
disconosce il luogo che gli è proprio e che deve mantenere in un ordine
superiore, divino e umano ad un tempo.
Innocentia. Anche
questa parola evocava idee di chiarezza e diforza, nell’uso prevalente
nell’antichità essa esprimeva la purezza d’animo, l’integrità, il disinteresse,
la rettitudine. Non si esauriva nel significato negativo di non essere
colpevole. Da essa esulava la sfumatura di banalità che oggi presenta
l’espressione “spirito innocente”, sinonimo, quasi, di sempliciotto. In altre
lingue romaniche, come nel francese, lo stesso termine, innocent, finisce con
l’essere anche la designazione degli idioti (!!!), degli spiriti sfasati per
nascita, deboli di mente e come stupefatti.
Patientia. Il
significato moderno, rispetto a quello antico, accusa di nuovo uno smussamento
e un depotenziamento. Oggi viene detto paziente chi non si arrabbia, chi non si
irrita, chi tollera. Nella lingua latina la patientia designava una delle
“virtù” primarie dell’uomo romano: comprendeva l’idea di una forza interna, di
una incrollabilità, alludeva alla capacità di tener fermo, di aver l’animo non
turbato di fronte a qualsiasi rovescio e a qualsiasi avversità. Per questo fu
detto esser prorio, alla razza di Roma, il potere sia di compiere grandi cose,
sia di “patire” vicende avverse di non minore entità (cfr. il noto detto di
Livio: et facere et pati fortia romanum est). Il significato moderno risulta
invece, rispetto all’altro, completamente innacquato. Come esempio di una
natura tipicamente paziente viene indicato l’asino.
Humilitas. Con la
religione venuta a predominare in Occidente l’umiltà è divenuta una ‘virtù’ in
un senso poco romano, glorificata in opposto a quella tenuta di forza, di
dignità, di calma consapevolezza, di cui si è detto più sopra. In Roma antica
essa significò proprio il contrario di ognivirtus. Volle dire bassezza,
spregevolezza, bassa condizione, abiezione, viltà, disonore – per cui, ad
esempio potè dirsi che all’«umiltà» è da preferire la morte o l’esilio:
humilitati vel exilium vel mortem anteponenda esse. Frequenti sono associazioni
di idee, come mens humilis et prava, cioè mente bassa e malvagia. L’espressione
humilitas causam dicentium si riferisce alla condizione di inferiorità e di
colpa di coloro che sono portati dinanzi ad un tribunale. Anche qui s’incontra
una interferenza con l’idea di razza o casta: humilis parentis natus
significava essere nato dal popolo in senso dispregiativo, plebeo, in opposto
alla nascita gentilizia, dunque con una sensibile divergenza rispetto al senso
moderno di «umile condizione», specie considerando che oggi il criterio quasi
esclusivo delle posizioni sociali è quello economico. In ogni caso, ad un
Romano del buon tempo antico non sarebbe mai venuto in mente di concepire
l’humilitas come una virtù, fino a trar vanto da essa e a predicarla. Quanto a
certa «morale dell’umiltà», si potrebbe ricordare il rilievo di un imperatore
romano, ossia che nulla vi è di più deprecabile dell’orgoglio di coloro che si
dicono umili – senza che con questo si voglia dar valore, però, alla
presunzione e all’arroganza.
Ingenium. Solo in
parte il significato antico si è conservato nella parola moderna, ed è, di
nuovo, il suo aspetto meno interessante. Ingenium nell’antica lingua latina
indicava anche la perspicacia, l’acutezza di mente, la sagacia, l’avvedutezza –
ma, in pari tempo, la parola rimandava al carattere, a ciò che in ognuno è organico,
innato, veramente proprio. Vana ingenia poté, dunque, significare persone senza
carattere; redire ad ingenium poté dire tornare alla propria natura, ad un modo
di vita conforme a quel che veramente si è. Questo più importante significato è
andato perduto nella parola moderna, a tal segno da dar luogo quasi ad una
antitesi. Infatti se l’ingegno lo si intende in senso intellettualistico e
dialettico, si ha qualcosa di evidentemente opposto al secondo significato
incluso nel termine antico, che rimanda al carattere, ad uno stile conforme
alla propria natura; è superficialità di contro a organicità, è moto
irrequieto, brillante e inventivo della mente contro ad un rigoroso stile di
pensiero aderente al proprio carattere.
Servitium. Il verbo
servio, servire in latino ha anche il significato positivo di essere fedeli.
Prevale però il significato negativo di essere servi; è quest’ultimo, in ogni
caso, che sta alla base dell’altra parola, servitium, la quale indicava appunto
la schiavitù, il servaggio, perché derivata da servus = schiavo. Nei tempi
moderni la parola “servire” si è sempre più diffusa perdendo questa sfumatura
negativa e avvilente, al punto che nei popoli soprattutto anglosassoni del
“servizio sociale” si è potuto fare quasi l’oggetto di un’etica, dell’unica
etica veramente moderna. E come non si è sentito l’assurdo di parlare di
“lavoratori intellettuali”, del pari nel sovrano si poté vedere “il primo
servitore della nazione”.
Anche a tale riguardo,
è opportuno rilevare che, come i Romani non ci si presentano per nulla come una
razza di “oziosi”, del pari essi ci offrono i più alti esempi di lealismo
politico, di fedeltà allo Stato e ai capi. Ma il tono è assai diverso. La
trasformazione dell’anima delle parole non è casuale. Che parole, come labor,
servitium, otium, si siano imposte nell’uso corrente secondo il loro
significato moderno, ciò è un indice sottile, ma eloquente, di uno spostamento
di prospettive avvenuto non di certo nella direzione di vocazioni virili,
aristocratiche, qualitative.
Stipendium. Occorre
appena dire che cosa oggi significhi “stipendio”. Si pensa subito ad un
impiegato, alla burocrazia, al famoso 27 del mese degli statali. Nella Roma
antica il termine si riferiva invece quasi esclusivamente all’esercito.
Stipendium merere significava militare, stare agli ordini dell’uno o dell’altro
capo o condottiero. Emeritis stipendis significava: dopo aver compiuto il
servizio militare. Homo nullius stipendii era colui che non aveva conosciuto la
disciplina delle armi. Stipendis multa habere voleva dire poter vantare molte
campagne, molte imprese di guerra. Anche qui, la differenza è di non poco
momento.
Il significato
completo di altre parole latine, come studium estudiosus, oggi non si mantiene
più che in certe locuzioni speciali, come ad esempio “fare con studio”,
intendendosi a bella posta o con una certa applicazione. Nel termine latino era
presente l’idea di una intensività, di un calore, di un interesse vissuto, che
nella parola moderna si è offuscato, perché da questa si è portati a pensare
soprattutto a discipline intellettuali o scolastiche più o meno aride. Studium
latinamente poteva dire perfino amore, desiderio, inclinazione viva. In re
studium ponere significava prendere a cuore una cosa, interessarsene vivamente
e attivamente. Studium bellandi voleva dire il piacere, l’amore del combattere.
Homo agendi studiosus era colui che ama l’azione – riprendendo quel che si è
detto circa labor, era l’antitesi di colui pel quale l’azione può significare
soltanto “lavoro”. Che si può pensare, poi, oggi, di una espressione come
studiosi Caesaris? Essa non voleva dire coloro che studiano Cesare, bensì coloro
che lo seguono, che lo ammirano, che ne prendono le parti, che gli sono
affezionati e fedeli.
Altre parole l’antico
senso delle quali è andato perduto sono, ad esempio, docilitas, che non voleva
dire docilità ma soprattutto buona disposizione o capacità di apprendere, di
far proprio un insegnamento o principio; poi ingenuus, che non significava
affatto “ingenuo” bensì uomo nato libeo, di condizione non servile. Che,
latinamente, humanitas non significasse “umanità” nel senso democratico e
sfaldato di oggi bensì cultura di sé, pienezza di vita e di esperienza – e ciò,
originariamente, nemmeno in un senso “umanistico” all’Humboldt – è cosa più o
meno risaputa. Un altro esempio non privo d’importanza: certus. Nell’antica
lingua latina la nozione di certezza, di cosa certa, stava frequentemente in
relazione con quella di una determinazione consapevole. Certum est mihi vuol
dire: è mia ferma volontà. Certus gladio è colui che può affidarsi alla propria
spada, che è sicuro di sapersene servire. Nota è la formula diebus certis, che
non vuol dire “nei giorni certi” ma nei giorni fissati, stabiliti. Ciò potrebbe
dare uno spunto per considerazioni circa una speciale concezione della
certezza: concezione attiva, che la fa dipendere da ciò che rientr nel nostro
potere determinante. In una certa misura, Gian Battista Vico nello stesso
spirito enunciò la formula verum et factum converturtur – ma su tale via si
doveva finire nelle divagazioni proprie al cosidetto “idealismo assoluto”
neo-hegeliano. Porremo fine a queste osservazioni considerando il contenuto
originario di tre antiche nozioni romane, quelle di fatum, felicitas e fortuna.
Fatum. Secondo
l’accezione moderna più corrente il “fato” è una potenza cieca che incombe
sugli uomini, che ad essi s’impone facendo si che si realizzi quel che essi
meno vogliono, spingendoli eventualmente verso la tragedia e la sventura. Da
qui il termine “fatalismo”, antitesi di ogni atteggiamento di libera, efficace
iniziativa. Secondo la visione fatalistica del mondo il singolo non è nulla, la
sua azione, malgrado ogni parvenza di libero arbitrio, o è predestinata, o è
vana, e gli avvenimenti si svolgono obbedendo ad una obbedienza o ad una legge
che lo trascende e che non lo tiene in alcun conto. “Fatale” è un aggettivo
che, prevalentemente, ha un significato negativo: esito “fatale”, un incidente
“fatale”, “l’ora fatale della morte”, e via dicendo.
Secondo la concezione
antica, il fatum corrispondeva invece essenzialmente alla legge dello sviluppo
del mondo, legge che, a sua volta, non veniva pensata cieca, irrazionale e
automatica – “fatale” nel senso moderno – bensì come piena di senso e come
procedente da una volontà intelligente, soprattutto da quella delle potenze
olimpiche. Il fatum romano rimandava, come il *rta indoeuropeo, alla nozione
del mondo come cosmos e ordine, in particolare a quella della storia come uno
sviluppo di cause e di eventi riflettente significati superiori. Le stesse
Moirai della Tradizione ellenica, benché presentassero alcuni aspetti malefici
e “inferi” (che risentivano di culti pre-ellenici e pre-indoeuropei), appaiono
spesso come personificazioni della legge intelligente e giusta che presiede al
governo dell’Universo, in certe sue estrinsecazioni.
Però è soprattutto a
Roma che la nozione di fatum acquista un particolare risalto. Ciò pel fatto che
la civiltà romana, fra tutte quelle a carattere tradizionale e sacrale, si
concentrò particolarmente sul piano dell’azione e della realtà storica. Perciò
ad essa importò meno il conoscere l’ordine cosmico come una legge
supertemporale e metafisica, che il conoscerlo come forza in atto nella realtà,
come volere divino ordinatore di avvenimenti. Al che, romanamente, si collegava
appunto il fatum. L’espressione viene dal verbo fari, dal quale deriva anche la
parola fas, il diritto come legge divina. Così fatum allude alla “parola” –
s’intende: alla parola rivelata, soprattutto a quella delle divinità olimpiche
che dà a conoscere la norma giusta (fas) così come annuncia ciò che sta per
avvenire. In relazione a questo secondo aspetto gli oracoli, nei quali un’arte
speciale tradizionale cercava di cogliere in germe quel che corrispondeva a
situazioni in via di realizzarsi, si chiamavano anche fata; erano, quasi, la
parola rivelata della divinità.
Ciò premesso, per
l’insieme che ora stiamo considerando devesi tener presente un rapporto
dell’uomo con l’ordine generale del mondo che in Roma antica e nelle civiltà
tradizionali in genere era assai diverso da quello che doveva successivamente
predominare. Se l’idea di una legge universale e di un volere divino non
annullavano la nozione della libertà umana, pure fu costante preoccupazione
dell’uomo antico formare la sua azione e la sua vita in modo che esse
continuassero l’ordine generale, rappresentassero, per così dire, un prolungamento
o un ulteriore sviluppo di esso. Partendo dalla pietas, ossia, romanamente, dal
riconoscimento e dalla venerazione delle forze divine, ci si pone come compito
il presentire la direzione di queste forze divine nella storia in modo da
potervi accordare opportunamente l’azione, tanto da renderla massimamente
efficace e piena di significato. Da qui la parte importantissima che nel mondo
romano, fin nel dominio della cosa pubblica e dell’arte militare, ebbero
l’oracolo e l’auspicio. Fu ferma persuasione del Romano che le peggiori
sciagure, comprese le disfatte militari, non fossero tanto dipese da errori,
debolezze o deviazioni umane quanto dall’aver trascurato gli auspici, cioè
riportando la cosa alla sua essenza, dell’aver agito disordinatamente e arbitrariamente,
seguendo meri criteri umani, rompendo i contatti col mondo superiore
(romanamente, ciò voleva dire aver agito senza religio, cioè senza
collegamento), senza tener conto delle “direzioni di efficacia” e del “momento
giusto” condizionanti un’azione “felice”. Si noti che la fortuna e la felicitas
in Roma antica spesso appaiono soltanto come l’altra faccia di fatum, come la
sua faccia propriamente positiva.. L’uomo, il capo o il popolo che usano la
loro libertà per agire in aderenza con le forze divine delle cose, hanno
successo, riescono, trionfano – e questo voleva dire, anticamente, essere
“fortunato” ed essere “felice” (tale senso si è conservato in locuzioni, come
“un’iniziativa felice”, una “mossa felice”, ecc.). Uno storico moderno, Franz
Altheim, ha creduto di poter riconoscere in questo atteggiamento la causa
effettiva della grandezza romana.
Per chiarire
ulteriormente i rapporti fra “fato” e azione umana ci si può riferire alla
tecnica moderna. Esistono certe leggi delle cose e dei fenomeni, che possono
essere conosciute o ignorate, di cui si può tenere o non tenere conto. Di
fronte ad esse l’uomo, in fondo, resta libero. Egli può anche agire in modo
contrario a quel che tali leggi consiglierebbero, tanto da vedere la sua azione
fallire ovvero tanto da raggiungere lo scopo solo con un grande sperpero di
energie e superando ogni specie di difficoltà. La tecnica moderna corrisponde
all’opposta possibilità; si cerca di conoscere il meglio possibile le leggi
delle cose per poterle sfruttare e far sì che esse indichino la linea della
minore resistenza e della maggiore efficacia per la realizzazione di un dato
fine.
Non altrimenti stanno
le cose su un piano in cui non si tratta più di leggi della materia ma di forze
spirituali e “divine”. L’uomo antico riteneva cosa essenziale conoscere o,
almeno, presentire tali forze, tanto da potersi formare un concetto delle
condizioni propizie per una data azione e eventualmente di ciò che doveva fare
o non doveva fare. Sfidare il fato, ad ergersi contro il fato, per lui non era
cosa “prometeica” nel senso romantico esaltato dai moderni, ma semplicemente
sciocca. Empietà (che vuol dire il contrario della pietas, ossia l’esser privo
di religio, di “collegamento” e della comprensione rispettosa dell’ordine cosmico)
per l’uomo antico era più o meno stupidità, infantilità, fatuità. Il paragone
con la tecnica moderna è difettoso in un sol punto: pel fatto che le leggi
della realtà storica non si presentavano come disanimatamente “oggettive”,
affatto staccate dall’uomo e dalle sue finalità. Si potrebbe dire così:
l’ordinamento oggettivo divino connesso al fato giunge fino ad un certo limite,
oltre il quale esso cessa di essere determinante e diviene tendenziale (donde
il noto detto dell’astrologia: astra inclinant non determinant). Qui prende
inizio il mondo umano e storico in senso proprio. In via normale questo mondo
dovrebbe continuare il precedente, la volontà umana dovrebbe, cioè, riprendere
e portar oltre la volontà “divina”. Che ciò avvenga o no dipende essenzialmente
dalla libertà: occorre che lo si voglia. Nel caso positivo quel che era
tendenza si fa, attraverso l’azione umana, realtà. Il mondo umano si presenterà
allora come una continuazione dell’ordine divino e la stessa storia andrà ad
assumenre i tratti di una rivelazione e di una “storia sacra”; l’uomo non vale
e non agisce più per se stesso bensì in una dignità divina e il tutto acquista,
in un qualche modo, una dimensione superiore.
Si vede, così, che si
tratta di cosa ben diversa dal “fatalismo”. Come un’azione contro il “fato” è
sciocca e irrazionale, così un’azione armonizzata col fato è non solo efficace
ma anche trasfigurante. Chi non tiene conto del fatum è quasi sempre destinato
ad essere passivamente trasportato dagli eventi; chi lo conosce lo assume e vi
si innesta viene invece guidato verso un superiore compimento, ricco di un
significato non soltanto individuale. Tale è il senso del detto antico secondo
il quale i fata “nolentem trahunt, volentem ducunt“.
Nel mondo romano
antico e nell’antica storia romana sono numerosi gli episodi, le situazioni e
le istituzioni dove viene in luce, appunto, il sentimento di incontri
“fatidici” fra mondo umano e mondo divino, di forze dall’alto che scorrono
nella storia e si manifestano attraverso quelle umane. Per limitarci ad un solo
esempio, si può ricordare che “il culmine del culto romano di Giove era
sostituito da un atto in cui il dio si fa presente nella sua qualità di
vincitore in un uomo, nel trionfatore. Non è che Giove sia solo causa della
vittoria, ma egli stesso è il vincitore; il trionfo non si celebra in suo onore
ma egli stesso è il trionfatore. Per questa ragione l’imperatorriveste le
insegne del dio” (KK. Kerényi, F. Altheim).
Attuare – talvolta
prudentemente, talaltra audacemente – nell’azione e nell’esistenza il divino,
questo fu un principio direttivo che l’antica romanità applico allo stesso
ordine politico. Così è stata giustamente messa in rilievo la misura nella
quale Roma ignorò il mito nel senso astratto e soltanto superstorico prevalente
in alcune altre civiltà; in Roma il mito si fa storia, così come, a sua volta,
la storia assume un aspetto “fatale”, si fa mito.
Da ciò procede una
conseguenza importante. In questi casi, è una identità che, propriamente, si
realizza. Non si tratta di una parola divina che può essere ascoltata o non
ascoltata. Si tratta invece di un dispiegamento nel quale la volontà umana
appare quella stessa delle forze superiori. Con il che si viene ad un concetto
particolare, oggettivo, quasi diremmo trascendentale della libertà.
Contrapponendomi al fatum posso bensì rivendicare per me un arbitrio, ma esso è
sterile, è un puro “gesto” perché esso ben poco saprebbe incidere sulla trama
della realtà. Quando, invece, ho fatto si che la mia volontà continui un
ordinamento superiore, sia, cioè, l’organo per mezzo del quale questo
ordinamento si realizza nella storia, ciò che io voglio in un simile stato di
coincidenza o di sintonia è tale da tradursi eventualmente in un comando per
forze oggettive che altrimenti non si sarebbero facilmente piegate o non
avrebbero avuto riguardo per quel che gli uomini vogliono o sperano.
Ora, ci si può
chiedere: come è che si è giunti alla nozione moderna del fato come una potenza
oscura e cieca? Come tanti altri, un tale mutamento di significato è lungi
dall’essere casuale, esso riflette un mutamento di livello interiore e si
spiega, essenzialmente, con l’avvento dell’individualismo e dell’umanismo
inteso in un senso generale, cioè con riferimento ad una civiltà e ad una
visione del mondo basate unicamente su ciò che è umano e terrestre. È evidente
che, una volta prodottasi questa scissione, al luogo di un ordinamento
intelligibile del mondo doveva essere sentito il potere di qualcosa di oscuro e
di estraneo. Il “fato” divenne allora il simbolo generale di tutte quelle forze
più profonde in atto, sulle quali l’uomo, malgrado il suo dominio sul mondo
fisico, può ben poco, perché non le comprende più e si è tagliato fuori di
esse, ed anche di forze che, col suo stesso atteggiamento, ha liberato e ha
rese sovrane in dati dominî dell’esistenza.
Questa è solo un’idea
dell’importanza e dell’interesse che avrebbe una illuminata filologia perché,
come si disse, le parole hanno una loro anima e una loro vita, tanto che anche
a tale riguardo il rifarsi alle origini può spesso dischiudere prospettive
insospettate. Il lavoro, poi, sarebbe ancor più fecondo ove non ci si limitasse
a retrocedere dalle lingue “romaniche” all’antica lingua latina, ma la stessa
lingua latina venisse riportata al più vasto, comune ceppo delle lingue
indoeuropee, del quale essa, nei suoi elementi fondamentali, è stata una
differenziazione.
tratto da
"Imperialismo pagano" di Julius Evola
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