Il nucleo dei Veda
doveva già esistere, almeno come tradizione orale, quando il processo
d’indoeuropeizzazione dell’Europa tocca il suo apice, quello che prelude
immediatamente al sorgere del mondo greco-romano.
È la cosidetta
«migrazione dorica» ossia quel movimento di popoli del Nord – caratterizzati
dai loro Urnenfelder – che spinge in Grecia i Dori, avvia le migrazioni
italiche nella penisola appenninica e causa la irradiazione dei Celti in tutta
l’Europa dell’Ovest.
Incisioni rupestri di
Tanum, Bohuslän, Svezia.
La presenza
dell’incinerazione in questa seconda e risolutiva ondata indoeuropea ci
introduce a un nuovo avvenimento spirituale che si colloca sempre nel solco del
simbolismo solare e della «negazione della Madre».
L’incinerazione ha
antiche radici nell’Europa-Centrale, ma solo alla fine dell’età del bronzo
raggiunge quella espansione e quella compattezza che ci metton di fronte a una
nuova visione della vita. È un rituale tipicamente uranico, orientato verso il
cielo e la luce. La purificazione dello spirito dal peso della terra e la sua
liberazione in pura sostanza di fuoco trovano un’eco precisa in una nuova
fioritura del simbolismo celeste.
Il cerchio solare, la
croce celtica, il disco puntato, la ruota raggiata traversano tutta l’Europa
tra quei due grandi centri di riferimento che sono le incisioni rupestri del
Bohuslän e quelle della Valcamonica. Allo stesso modo, dalla Svezia all’Italia
– partendo da un focolare mitteleuropeo – fa la sua comparsa il motivo del
cigno astrale, destinato a perpetuarsi fino alla leggenda di Lohengrin e del
Graal. Il motivo dei due cigni affiancati che tirano la nave del sole, le
protome di cigno stilizzate a 5, sono una delle più caratteristiche
manifestazioni della cultura dei campi d’urne e ne accompagnano l’espansione
giù giù, fin nel Lazio.
Il carro solare –
questa volta trainato da un cavallo – è emerso in una palude della Danimarca a
confermare la veridicità del mito ellenico dell’Apollo dimorante nel paese degli
Iperborei.
Significativamente,
nelle incisioni rupestri della Svezia e della Valcamonica, accanto al
moltiplicarsi degli standars solari e di divinità maschili, vi è una
rimarchevole assenza delle figurine femminili:
«Manca la fanciulla,
così come la madre e la partoriente; manca l’immagine del piccolo animale che
sugge il latte, immortalato sia a Creta che in Egitto in indimenticabili
figurazioni. È un’anima radicalmente diversa quella che si esprime in queste
incisioni rupestri nordiche e italiche. All’antico mondo mediterraneo, col suo
naturalismo femminile, si contrappone una cultura tipicamente virile. Essa si
apre una via verso il Sud» (Altheim, Italien und Rom, Amsterdam und Leipzig
1940, S. 25-26).
Un’assenza che ha un
preciso valore indicativo circa il contenuto spirituale della «migrazione
dorica». È un contenuto che verrà presto alla luce sia nel pantheon olimpico
che nello stile di vita asciutto e severo del doricismo e della romanità.
Intorno al 950 circa,
la grande migrazione è finita: nel Peloponneso ci sono ormai i Dori e sui Colli
Albani i Latini. L’ethnos italico ed ellenico, saturo di elementi nordici, si
prepara alla grande stagione della civiltà classica. Dalla Grecia all’Italia si
diffonde una nuova costellazione simbolica la cui stella polare è la svastica –
ripetuta centinaia di volte sia sui vasi del cosidetto « periodo geometrico »,
sia sulle urne a capanna del Lazio.
La preistoria è
finita. Sull’Ellade albeggia l’aurora omerica. Significativamente, quando il
primo popolo indoeuropeo d’Europa incomincia a parlare, il suo messaggio è
quello della religione olimpica.
Di duemilacinquecento
anni di preistoria religiosa europea, una parola ci è rimasta: *dyeus.
È il nome della
Divinità: Juppiter – da Dius-pater (gen. Iovis, dat. Iovii) tra i Latini; Zeus
(gen. Diòs) tra gli Elleni; Dyaus in India; Tyr o Ziu nel mondo germanico. È il
nome del dio supremo e – al tempo stesso – quello del cielo divino in tutta la
sua luce e tutto il suo splendore.
È questa una
importante scelta spirituale: gli Indoeuropei, la razza nordica, gli europei
sono il popolo di *dyeus, il popolo della luce. Il popolo destinato a portare
il lògos, la legge, l’ordine, la misura. Il popolo che ha divinificato il Cielo
di fronte alla Terra, il Giorno di fronte alla Notte, la razza olimpica per
eccellenza.
È una scelta destinata
a segnare un orientamento di millenni: l’ordine, nel mondo, è opera dell’uomo
bianco.
Ma il Giorno, *dyeus,
è – al tempo stesso – il Padre. Juppiter, Zeus patér, Dyaus pitàr sono termini
che si pronunciano l’uno nell’altro.
L’ordine della luce è
un ordine maschile. Non l’ordine della Madre – confondente tutto e tutti in una
pacifica promiscuità, e che sta al di qua della civiltà come noi la concepiamo:
«Dal principio della
maternità generatrice scaturisce il senso della universale fratellanza di tutti
gli esseri, senso che declina e non trova più risuonanze con l’avvento del
principio della paternità. La famiglia incentrata nel patriarcato è conchiusa
come un organismo individuo, quella matriarcale conserva invece quel carattere
tipicamente universalistico che si ritrova nei primordi. Da esso procede quel
principio di universale eguaglianza e libertà, che noi spesso ritroviamo come
tratto fondamentale dei popoli ginecocratici, insieme alla filoxenìa (simpatia
per gli stranieri) e ad una decisa insofferenza per ogni specie di limiti e
restrinzioni; infine, non diversa origine ha l’esaltazione del sentimento d’una
generale parentela e di una simpatia, synpàtheia – che non conosce limiti… »
(Bachofen, Le madri e la virilità olimpica, Milano 1949, pg. 34-35).
Il genio spirituale
indoeuropeo – quale si manifesta fin nei primordi, sta appunto nel rifiuto di
questa fratellanza promiscua del regno della Madre. Contro la promiscuità
stanno la Famiglia e lo Stato, contro la fratellanza universale e bastarda la
stirpe e la razza.
Contro il livellamento
sta l’Ordine – come principio di differenziazione luminoso. L’Ordine solare del
giorno, l’ordine di *dyeus, quale si trova simboleggiato nella svastica,
primordiale simbolo della luce .
Adriano Romualdi
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