“Noi siamo uomini
d’oggi. Siamo soli. Non abbiamo più dei. Non abbiamo più idee. Non crediamo né
a Gesù Cristo né a Marx. Bisogna che immediatamente, subito, in questo stesso
attimo, costruiamo la torre della nostra disperazione e del nostro orgoglio. Con
il sudore ed il sangue di tutte le classi dobbiamo costruire una patria come
non si è mai vista; compatta come un blocco d’acciaio, come una calamita. Tutta
la limatura d’Europa vi si aggregherà, per amore o per forza. E allora davanti
al blocco della nostra Europa, l’Asia, l’America e l’Africa diventeranno
polvere“.
«Morirò con gioia
selvaggia all’idea che Stalin sarà il padrone del mondo. Finalmente un padrone.
È bene che gli uomini abbiano un padrone il quale faccia loro sentire
l’onnipresenza feroce di Dio, l’inesorabile voce della legge» (27 dicembre
1942)
«Quello che mi piace
nel trionfo del comunismo è non solo la scomparsa di una borghesia detestabile
e ottusa, ma anche l’inquadramento del popolo e la rinascita dell’antico
dispotismo sacro, dell’aristocrazia assoluta, della teocrazia definitiva.
Scompariranno così tutte le assurdità del Rinascimento, della riforma, della
rivoluzione americana e francese. Si torna all’Asia; ne abbiamo bisogno» (25
aprile 1943)
«In mancanza del
fascismo (…) solo il comunismo può mettere veramente l’Uomo con le spalle al
muro costringendolo ad ammettere di nuovo, come non avveniva più dal Medioevo,
che ha dei Padroni. Stalin, più che Hitler, è l’espressione della legge
suprema» (2 settembre 1943)
Siamo tutti degni uno
dell’altro, tutti gli stessi azionisti della società industriale moderna del
capitale di miliardi di carta e di migliaia di ore di lavoro fastidioso e vano.
Che ciò sia a Kharkov, o a Patin, a Shanghai, o a Philadelphia, non è poi la
stessa cosa? Non esistono altro che i moderni, gente piena di affari, gente del
plusvalore o del salario, che non pensa che a questo e non discute che di
questo.
Non barate, come non
baro io. Condannatemi a morte. Non sono soltanto un francese, ma un europeo.
Anche voi lo siete, scientemente, o incoscientemente. Ma abbiamo giocato e io
ho perduto. Ergo, la morte.
Il suicidio è una
viltà, ma una viltà di cui non tutti hanno il coraggio.
Da ragazzo ho giurato
a me stesso di restare fedele alla mia giovinezza: un giorno ho cercato di
mantenere la parola.
Non ho creduto
affatto, dandomi la morte, di contraddire all’idea dell’immortalità che ho
sempre sentita viva dentro di me. Era proprio perchè credevo nell’immortalità
che mi precipitavo così vivamente verso la morte. Io professavo che ciò che si
chiama morte non è che una soglia al di là della quale la vita prosegue, o
perlomeno qualcosa di ciò che sia chiama vita, qualcosa che non ne è l’essenza.
Credevo, del resto, che possa continuare soltanto ciò che è cominciato; se
l’anima continua, è perchè non ha mai cessato di esistere… Certo, rigettavo
l’idea volgare della sopravvivenza di un’ anima individuale. Non pensavo
certamente di perdere, o di salvare la mia anima personale mettendo fine ai
miei giorni.
L’uomo esiste soltanto
nel combattimento… Vive soltanto se rischia la morte.
Oltre alla solitudine,
l’altra mia grande ricchezza è stata la malinconia. La gente non mi ha capito e
mi ha creduto uggioso, annoiato. Io stesso, a volte, non ho capito. Malinconia
infinita e deliziosa, fatta del rimpianto di ciò che non avevo perennemente
lenito dal piacere per ciò che avevo. Malinconia di essere poco attivo,
statico, che si risolveva nel piacere di essere lento e quasi immobile;
malinconia di non essere sposato che sfumava, dopo ogni sbandata, nel piacere
di non esserlo più; malinconia di vivere in un paese in decadenza che
trapassava nel piacere di gustare tanti residui della laidezza del tempo;
malinconia di non essere pittore, o poeta, che si risolveva nel piacere di fare
grandi scorpacciate di storia; malinconia di non essere un politico, che diventava
piacere di scrivere qualche pagina libera. Rimpiango solo di non essermi
accettato e riconosciuto per quello che ero, di aver fatto il processo alle mie
intenzioni. Tutto quel senso di inferiorità, di persecuzione e di colpa mi ha
tormentato e svilito agli occhi miei e altrui. Ma in fondo non posso veramente
rammaricarmene, perché senza quell’elemento di inquietudine e di amarezza sarei
stato esattamente ciò che potevo apparire ad alcuni: un abietto gaudente senza
inferiorità. Ho anche sfruttato il vantaggio rappresentato, per il sibarita,
dall’essere dolcemente mistico. Non mi sono privato della compagnia degli dei.
E ho visto Dio attraverso le cose. E talvolta, nonostante tutto, sono stato
visitato dalla compassione e dall’angoscia.
Io, scrivo sotto
l’ombra d’un ponte una frase anonima che nessuno leggerà mai. Ma è una frase
detta per sempre. Come per sempre questa piccola maschera di pietra è scolpita
in cima alla cattedrale, dove in quattro secoli è stata guardata distrattamente
due volte soltanto dagli operai addetti alle riparazioni. Più i dettagli dei
miei giorni, delle mie ore, dei miei minuti sono infimi e più mi ci aggrappo;
più mi dedico all’effimero e più l’effimero mi distacca… No, mi lega
all’eternità che cade nel mio petto goccia a goccia… No, è una goccia sospesa
per sempre e che non cade mai.
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