Il poeta, in antico,
era vate e il suo carme era spesso espressione di un’antiveggenza dovuta
all’autentica comunione del suo spirito con un mondo sovrumano e
supertemporale. Anche Dante in questo senso era vate: è evidente nella sua idea
ghibellina, nella sua concezione dell’Impero che si ritrova nel De Monarchia e
nella Comedia.
Ora, c’è un epodo di
Orazio, nel quale con amarezza ci parla, come sotto ispirazione profetica,
dell’Impero che dovrà crollare, di future calate di barbari, di decadenza e di
grandi ruine, e tra l’altro il poeta annuncia: “… le ossa di Romolo composte
nel sepolcro e finora protette dagli ardori del sole e dalle tempeste, il
vincitore disperderà sacrilegamente”. Tutto questo, in realtà, si è andato
compiendo per secoli e secoli, con tragica veemenza, con la durezza
incontrastabile delle vicende predestinate ad opera di razze barbare cui Roma
aveva recato la luce della sua “solare” civiltà.
Ma, sotto nuovi
aspetti, in manifestazioni della genialità, in conquiste della scienza, in molteplici
vicende guerriere, nella gloria di città e di nuove repubbliche, lo spirito e
la razza di Roma, inestinguibili lungo il corso dei secoli si riaffermano con
la loro perenne missione, redimendo ancora l’anima del barbaro, ponendo come
esemplare di valore universo il costume italico della saggezza e della vita.
Così oggi nell’Era Fascista, noi possiamo affermare che l’epoca dei barbari si
è definitivamente chiusa: la profezia del poeta si è ormai esaurita in tutti i
suoi aspri particolari. “Ritorna sui colli fatali l’Impero di Roma” come il
Duce annunciava in un giorno fatidico per il popolo italiano.
Si è esaurita la
profezia perché i fori imperiali e i monumenti, della cui contaminazione Orazio
profeticamente si doleva, tornano ad essere investiti della luce del sole di
Roma, in un fasto di rinnovellata potenza: una nuova volontà d’imperio
virtualmente riprende, con la Tradizione di Roma, la missione della civiltà e
della cultura in un’epoca in cui nuovi aspetti dell’antica barbarie, di una
barbarie pseudo-civilizzata si presentano come una immane minaccia per i
destini occidentali.
Che cosa era in
origine un Foro? Niente altro che una vasta piazza, circondata da portici,
nella quale i cittadini si raccoglievano o per adunanze pubbliche o per rendere
giustizia o per mercati (civilia,judiciaria, penalia). Ci dice Vitruvio che i
Greci lo costruivano quadrato, cinto da portico doppio, con colonne fitte e a
due piani; mentre fra i Romani si eresse più spazioso, anche perché serviva
talora di agone ai gladiatori, ed erano così di un’ariosa ampiezza i relativi
intercolumni e le gallerie, perché vi si potesse comodamente passeggiare. Nei
Fori, poi, che servivano da mercato tra i portici, si collocavano botteghe di
mercanti e di cambiamonete e mostre di oggetti vari.Tra i fasti, i riti e i
monumenti che tornano in onore per virtù di questo contatto supertemporale con
la tradizione nella Roma mussoliniana presenta valore di simboloquello che fu
l’olimpo della storia e il cuore stesso della civiltà romulea: il Foro. La vita
politica e civile, culturale ed artistica dell’urbe antica ferveva infatti nel
Foro, come un centro di forza e di radianza più fervida. Non v’è dinamicità di
metropoli moderna che possa uguagliare il calore creativo che emanava dalla
folla raccolta nel Foro, formicolante in toghe e pepli, tra i templi e le
statue dorate, sotto gli occhi delle basiliche, maestosa nell’incedere e con
una permanente serenità del volto, mentre nel mezzo fervevano arringhe
politiche o pompe sacre. Vi si respirava un’atmosfera imperiale che recava con
sé anzitutto il senso del “divino” in quanto ogni atto ed ogni gesto del romano
antico rivestivano valore rituale: in ogni ora del giorno il suo vivere era
un’offerta al mondo superno, un motivo di contatto con il sovrannaturale che
realizzava la continua sintesi di spirito e azione, di religione e di vita – il
che significava costruzione effettiva della civiltà e dell’imperium.
Di uno splendore più
aristocratico invece brillano i fori imperiali ai quali è legato un significato
sovrammateriale e di consacrazione e di trionfo. Il Foro romano, o latino,
s’impone nell’opinione pubblica per le arringhe che tenevano i giurisperiti e
gli oratori più insigni, dalla tribuna ornata con rostri presi ai Cartaginesi.
Augusto elevò nel suo tempio di Marte Ultore, cinto di doppia galleria, con le
statue dei re latini da un lato e quelle dei re romani dall’altro. Il Foro di
Nerva, cominciato da Domiziano, venne ornato da Alessandro Severo di colonne di
bronzo e di colossali statue di imperatori. Per splendore di arte si distinse
altresì il Foro di Traiano, ma non meno costoso e imponente fu quello di Cesare
con nel mezzo il Tempio a Venere Genitrice e la statua equestre di lui
ricordata da Svetonio e da Plinio.
A ogni costruzione di
Foro corrispondeva la celebrazione di gesta vittoriose o di una personalità
affermatasi con onore nella vita dell’Urbe: esso dunque costituiva il simbolo
di una dignità dello spirito, il suggello di un significato superiore: era il
segno architettonico di una conquista, di una realizzazione compiuta, che,
elevato con senso di eternità, dovesse rimanere imperituro nel tempo ad
ammaestrare le future generazioni e a testimoniare il favore degli Dei. Dalla
rievocazione della vita del Foro, riappaiono sotto una più chiara luce le
figure dei Gracchi, di Mario, di Silla, di Pompeo, di Cesare, di Cicerone, di
Clodio, le poderose lotte delle leggi agrarie, dell’oligarchia e del popolo,
della repubblica e dell’impero, tutta la vita vissuta da Roma, sceneggiata e
combattuta sulla tribuna dei rostri, e il Comizio presso il Fico Ruminale che
protesse della sua ombra i fondatori della città. Nella vita del Foro si
esprimeva con vigoroso realismo tutta la magnificenza dello spirito quirite.
Il trionfo di una
razza superiore vi era rappresentato in ogni manifestazione del gusto
costruttivo: la folla che passeggiava per il Foro era presa essa stessa da quel
senso di grandezza che era legato ai templi ed alle statue. Così, ancora oggi,
dietro le colonne e le trabeazioni rimesse in luce nella regale maestà delle
basiliche e delle arcate, sembra che si profilino, per una consociazione di
immagini che si sottraggono alla legge del tempo, le piramidi e i colossi per
metà sommersi nelle arene del deserto africano, gli avanzi di Eliopoli e di
Palmira, i resti divini dell’Acropoli di Atene. La tragica visione di Orazio si
è ormai esaurita lungo le tempestose vicende del tempo: il cielo infine si
rischiara al lume di un nuovo sole: l’anima architettonica di Roma è tornata
per virtù di Mussolini: una nuova aurora imperiale già brilla attraverso il
sereno arco dell’iride.
* * *
Tratto da “Il Resto
del Carlino” del 28 giugno 1939, A. XVII E.F.
di Massimo Scaligero
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