martedì 14 agosto 2012

 
‎"In un universo di mediocri e di nani, noi, animati da una passione ardente, siamo stati dei costruttori di popoli, consapevoli del nostro destino storico...Lucidi e risoluti cavalieri che dall'alto dei loro cavalli fissavano sino all'estremità del cielo l'avvenire che si offriva loro".
Waffen SS
 

sabato 4 agosto 2012

LA COSTITUZIONE DELLA REPUBBLICA SOCIALE ITALIANA


CAPO I – LA NAZIONE – LO STATO

Art. 1

La Nazione Italiana è un organismo politico ed economico nel quale compiutamente si realizza la stirpe con i suoi caratteri civili, religiosi, linguistici, giuridici, etici e culturali. Ha vita, volontà, e fini superiori per potenza e durata a quelli degli individui, isolati o raggruppati, che in ogni momento ne fanno parte.

Art. 2

Lo Stato italiano è una Repubblica sociale. Esso costituisce l’organizzazione giuridica integrale della Nazione.

Art. 3

La Repubblica Sociale Italiana ha come scopi supremi: 1) la conquista e la conservazione della libertà dell’Italia nel mondo, perché questa possa esplicare e sviluppare tutte le sue energie e assolvere, nel consorzio internazionale fondato sulla giustizia, la missione civile affidatale da Dio, segnata dai ventisette secoli della sua storia, voluta dai suoi profeti, dai suoi martiri, dai suoi eroi, dai suoi geni [le parole "voluta dai suoi profeti, dai suoi martiri, dai suoi eroi, dai suoi geni" sono state cancellate da Mussolini e sostituite con la congiunzione "e"], vivente nella coscienza nazionale; 2) il benessere del popolo lavoratore, mediante la sua elevazione morale e intellettuale, l’incremento della ricchezza del paese e un’equa distribuzione di questa, in ragione del rendimento di ognuno nell’utilità [le parole "nell’utilità" sono state cancellate da Mussolini e sostituite con le parole "nella comunità"] nazionale.

Art. 4

La capitale della Repubblica Sociale Italiana è Roma.

Art. 5

La bandiera nazionale è quella tricolore: verde, bianca, rossa, col fascio repubblicano sulla punta dell’asta.

Art. 6

La religione cattolica apostolica e romana è la sola religione della Repubblica Sociale Italiana.

Art. 7

La Repubblica Sociale Italiana riconosce la sovranità della Santa Sede nel campo internazionale, come attributo inerente alla sua natura, in conformità alla sua tradizione e alle esigenze della sua missione nel mondo. La Repubblica Sociale Italiana riconosce alla Santa Sede la piena proprietà e la esclusività ed assoluta potestà e giurisdizione sovrana sulla Città del Vaticano.

Art. 8

I rapporti tra la Santa Sede e la Repubblica Sociale Italiana si svolgono nel sistema concordatario, in conformità dei Trattati e del Concordato vigenti.

Art. 9

Gli altri culti sono ammessi, purché non professino principi e non seguano riti contrari all’ordine pubblico e al buon costume. L’esercizio anche pubblico di tali culti è libero, con le sole limitazioni e responsabilità stabilite dalla legge.

CAPO II – STRUTTURA DELLO STATO

Art. 10

La sovranità promana [da] tutta la Nazione.

Art. 11

Sono organi supremi della Nazione: il Popolo e il Duce della Repubblica.

§ I – Il popolo – La rappresentanza

Art. 12

Il popolo partecipa integralmente, in modo organico e permanente, alla vita dello Stato e concorre alla determinazione delle direttive, degli istituti e degli atti idonei al raggiungimento dei fini della Nazione, col suo lavoro, con la sua attività politica e sociale, mediante gli organismi che si formano nel suo seno per esprimere gli interessi morali, politici ed economici delle categorie di cui si compone, e attraverso l’Assemblea costituente e la Camera dei rappresentanti del lavoro.

Art. 13

Nell’esplicazione delle sue funzioni sociali lo Stato, secondo i principi del decentramento, si avvale, oltre che dei propri organi diretti, di tutte le forze della Nazione, organizzandole giuridicamente in enti ausiliari territoriali e istituzionali, ai quali concede una sfera di autonomia ai fini dello svolgimento dei compiti loro assegnati nel modo più efficace e più utile per la Nazione.

SEZIONE I – L’ASSEMBLEA COSTITUENTE

Art. 14

L’Assemblea Costituente è composta da un numero di membri pari a 1 ogni 50.000 cittadini. Deve essere l’espressione di tutte le forze vive della Nazione e pertanto debbono farne parte:

per ragione delle loro funzioni: coloro che, al momento della riunione della Costituente, fanno parte del Governo della Repubblica e ricoprono determinate cariche nell’amministrazione centrale e periferica dello Stato, nella magistratura, nell’ordine scolastico, in enti locali territoriali e istituzionali, in organismi politici e culturali ai quali lo Stato abbia riconosciuti o assegnati compiti di alto interesse nazionale. La legge stabilisce le cariche che importano in chi le ricopre appartenenza alla Costituente. I membri di diritto non possono superare un terzo dei componenti della Costituente;
per elezione popolare, coloro che siano designati a far parte della Costituente dagli appartenenti alle organizzazioni riconosciute dallo Stato quali rappresentanti:
dei lavoratori (imprenditori, operai, impiegati, tecnici, dirigenti) dell’industria, dell’agricoltura, del commercio, del credito e dell’assicurazione, delle professioni e arti, dell’artigianato e della cooperazione;
dei dipendenti dallo Stato e dagli enti pubblici;
degli ex-combattenti per la causa nazionale, e, in particolare, dei decorati e dei volontari;
delle famiglie dei caduti per la causa nazionale;
delle famiglie numerose;
degli italiani all’estero;
delle altre categorie che in dati momenti della vita nazionale siano riconosciute, per legge, espressione di importanti interessi pubblici.
La legge stabilisce i requisiti e le forme per il riconoscimento di tali organizzazioni, nonché, per ciascuna di esse, il numero e i modi dell’elezione dei rappresentanti nella Costituente.

Art. 15

La Costituente elegge il Duce della Repubblica Sociale Italiana. Delibera:

sulla riforma della Carta costituzionale o sulle deroghe eccezionali alle norme della stessa;
sugli argomenti di supremo interesse nazionale che il Duce intenda sottoporle, o sui quali la decisione della Costituente sia richiesta dalla Camera dei rappresentanti del lavoro, con una maggioranza di almeno due terzi dei suoi membri di [sic, al posto di "in"] carica.
Art. 16

La Costituente è convocata dal Duce che ne fissa l’ordine del giorno. Nel caso di richiesta della Camera dei rappresentanti del lavoro, ai sensi dell’articolo precedente, la convocazione deve aver luogo entro un mese dal voto e nell’ordine del giorno debbono essere inseriti gli argomenti indicati dalla Camera. In caso di impedimento del Duce, la Costituente è convocata dal Capo del Governo. In caso di morte del Duce la Costituente deve esser convocata per la nomina del successore, entro un mese dalla morte.

SEZIONE II – LA CAMERA DEI RAPPRESENTANTI DEL LAVORO

Art. 17

La Camera dei rappresentanti del lavoro è composta di un numero di membri pari a 1 ogni 100.000 abitanti, eletti col sistema del suffragio universale diretto da tutti i cittadini lavoratori maggiori degli anni 18. Di essa inoltre fanno parte di diritto il Capo del Governo, nonché i Ministri e Sottosegretari di Stato.

Art. 18

Sono considerati lavoratori coloro che sono rappresentati da un’Associazione professionale riconosciuta e i dipendenti da enti eventualmente esenti dall’inquadramento. Sono, agli effetti dell’elettorato attivo, equiparati ai lavoratori:

coloro che hanno cessato di lavorare per ragioni di invalidità o vecchiaia;
coloro che seguono regolarmente un corso di studi, in istituti scolastici statali o pareggiati;
coloro che siano disoccupati involontari, o svolgano attività, da determinarsi per legge, fuori del campo della disciplina professionale.
Art. 19

Possono essere eletti rappresentanti del lavoro coloro che siano in possesso di tutti i seguenti requisiti:

Siano maggiori degli anni 25, oppure siano decorati al valor militare o civile, volontari di guerra, mutilati o feriti di guerra o comunque per la causa nazionale, maggiori degli anni 21;
siano elettori;
non abbiano subito condanne per delitti o atti incompatibili colla dignità e il prestigio di rappresentanti del lavoro. La legge determina tali delitti o atti, escludendo quelli compiuti per ragioni di convinzioni politiche.
Art. 20

I membri della Camera rappresentano tutto il popolo lavoratore, e non gli appartenenti alle circoscrizioni territoriali o alle categorie professionali che li hanno eletti.

Art. 21

I rappresentanti del lavoro non possono essere ammessi all’esercizio delle loro funzioni se non dopo aver prestato il giuramento dinanzi a Dio e ai Caduti della patria di servire con fedeltà la Repubblica Sociale Italiana, di osservare lealmente la Costituzione e le leggi, nel solo intento del bene della Nazione.

Art. 22

I rappresentanti del lavoro hanno il dovere di esprimere le loro opinioni e di dare i loro voti secondo coscienza e per i fini della loro funzione. Sono liberi e insindacabili nell’esercizio delle loro funzioni.

Art. 23

I rappresentanti del lavoro non possono essere arrestati, salvo il caso di flagranza di delitto, né processati, senza l’autorizzazione preventiva della Camera.

Art. 24

I rappresentanti del lavoro restano in carica per tutta la durata della legislatura (art. 25). E sono rieleggibili. Decadono però dalla loro funzione:

se tradiscono il giuramento prestato;
se perdono alcuno dei requisiti per la loro eleggibilità;
se trascurano i doveri della funzione rimanendo assenti per dieci sedute consecutive della Camera, senza autorizzazione da accordarsi dal Presidente (art. 34); qualora concorrano giustificati motivi.
Art. 25

I lavori della Camera sono divisi in legislature. Ogni legislatura dura cinque anni, ma può essere sciolta anche prima, nel caso stabilito dal presente Statuto. La fine di ciascuna legislatura è stabilita con decreto del Duce, su proposta del Capo del Governo (art. 50). Il decreto fissa anche la data di convocazione dell’Assemblea per ascoltare il discorso del Duce, col quale si inizia la legislatura successiva.

Art. 26

La Camera dei rappresentanti del lavoro collabora col Duce e col Governo per la formazione delle leggi. Per l’esercizio dell’ordinaria funzione legislativa la Camera è periodicamente convocata dal Capo del Governo.

Art. 27

Il potere di proposizione delle leggi spetta al Duce (art. 41) e ai rappresentanti del lavoro (art. 49).

Art. 28

La Camera esercita le sue funzioni per mezzo dell’Assemblea plenaria, della Commissione generale del bilancio e delle Commissioni legislative.

Art. 29

È di competenza esclusiva della Assemblea plenaria la discussione e l’approvazione:

dei disegni di legge concernenti: le attribuzioni e le prerogative del Capo del Governo; la facoltà del Governo di emanare norme giuridiche; l’ordinamento professionale; i rapporti fra lo Stato e la Santa Sede; i trattati internazionali che importino variazioni al territorio dello Stato e delle Colonie; l’ordinamento giudiziario, sia ordinario che amministrativo; le deleghe legislative di carattere generale;
dei progetti di bilancio e di rendiconto consuntivo dello Stato, delle aziende autonome statali e degli enti pubblici economici di importanza nazionale la cui gestione sia rilevante per il bilancio dello Stato;
dei disegni di legge per i quali tale forma di discussione sia richiesta dal Governo o dall’Assemblea, oppure proposta dalle Commissioni e autorizzata dal Capo del Governo;
delle proposte di sottoporre alla Costituente la decisione di argomenti di supremo interesse nazionale.
Art. 30

Le sedute dell’Assemblea plenaria sono pubbliche. Però la riunione può esser tenuta in segreto, quando lo richiedano il Capo del Governo o almeno venti [cancellato da Mussolini e corretto con "cinquanta"] dei rappresentanti del lavoro. Le votazioni hanno sempre luogo in modo palese.

Art. 31

Le commissioni legislative sono costituite, in relazione a determinate attività nazionali, dal Presidente della Camera. Esse eleggono nel proprio seno il Presidente; a questo spetta convocarle.

Art. 32

Sono [sic, al posto di "È"] di competenza delle Commissioni la emanazione delle norme giuridiche, aventi oggetto diverso da quello indicato nell’art. 28 e che importano creazione, modifica o perdita dei diritti soggettivi dei cittadini, salvo che la legge ne attribuisca la competenza anche ad altri enti e organi. La legge determina i modi, le forme e i termini per la discussione e l’approvazione dei disegni di legge sottoposti alle Commissioni legislative.

Art. 33

Le deliberazioni dell’Assemblea plenaria e delle Commissioni sono prese a maggioranza assoluta, salvo il caso dell’art. 15. Nessuna deliberazione è valida se non [è] presa con la presenza di almeno due terzi e col voto di almeno la metà dei rappresentanti del lavoro in carica.

Art. 34

La Camera:

provvede alla approvazione e modifica del suo regolamento;
elegge, al principio di ogni legislatura, il proprio Presidente e i Vice-Presidenti.
Il Presidente nomina alle altre cariche stabilite dal regolamento della Camera.

§ II – Il Duce della Repubblica Sociale Italiana

Art. 35

Il Duce della Repubblica Sociale Italiana è il Capo dello Stato. Quale supremo interprete della volontà nazionale, che è la volontà dello Stato, realizza in sé l’unità dello Stato.

Art. 36

È eletto dall’Assemblea Costituente. Dura in carica cinque [cancellato da Mussolini e corretto con "sette"] anni. È rieleggibile [Mussolini ha aggiunto le parole "una volta sola"].

Art. 37

All’atto dell’assunzione delle sue funzioni, deve prestare giuramento dinanzi a Dio e ai Caduti per la Patria, di servire la Repubblica Sociale Italiana con tutte le sue forze e di ispirarsi in ogni atto del suo ufficio all’interesse supremo della Nazione e alla giustizia sociale.

Art. 38

Il Duce non è responsabile verso alcun altro organo dello Stato per gli atti compiuti nell’esercizio delle sue funzioni.

Art. 39

Il Duce comanda tutte le forze armate, in tempo di pace a mezzo del Ministro per la Difesa Nazionale, in tempo di guerra a mezzo del Capo di Stato Maggiore Generale; dichiara la guerra; fa i trattati internazionali, dandone comunicazione alla Costituente o alla Camera dei rappresentanti del lavoro appena che ritenga ciò consentito dai supremi interessi dello Stato. I trattati che importino variazioni nel territorio dello Stato, limitazioni o accrescimenti della sua sovranità o oneri per le finanze, non diventano esecutivi se non dopo avere ottenuto l’approvazione della Costituente o della Camera dei rappresentanti del lavoro, ai sensi di questa Costituzione.

Art. 40

Il Duce esercita il potere legislativo in collaborazione con il Governo e con la Camera dei rappresentanti del lavoro.

Art. 41

Il Duce convoca ogni anno la Camera. Può prorogarne le sessioni.

Art. 42

Qualora ravvisi il dissenso politico tra il popolo dei lavoratori e la Camera, il Duce può scioglierla, convocandone un’altra nel termine di tre mesi.

Art. 43

Il Duce presenta alla Camera i disegni di legge per mezzo del Governo.

Art. 44

Il Duce sanziona le leggi.

Art. 45

Al Duce appartiene il potere esecutivo. Esso lo esercita direttamente e a mezzo del Governo. Il Duce promulga le leggi. Il Duce nomina a tutte le cariche dello Stato. Con decreto del Duce, sentito il Consiglio dei Ministri, sono emanate le norme giuridiche per disciplinare:

l’esecuzione delle leggi;
l’uso delle facoltà spettanti al potere esecutivo;
l’organizzazione e il funzionamento delle amministrazioni dello Stato, e di altri enti pubblici indicati dalla legge.
Con decreto del Duce, previa deliberazione del Consiglio dei Ministri, possono emanarsi norme aventi forza di legge:

quando il Governo sia a ciò delegato da una legge;
nei casi di urgente e assoluta necessità sulla materia di competenza dell’Assemblea generale e delle Commissioni legislative della Camera, nonché per la messa in vigore dei disegni di legge su cui le Commissioni legislative non abbiano deliberato nei termini fissati dalla legge. In questi casi il Decreto del Duce deve essere a pena di decadenza presentato alla Camera, per la conversione in legge, entro sei mesi dalla sua pubblicazione. Se la Camera non l’approvi e decorrano due anni dalla pubblicazione, senza che sia intervenuta la conversione, il decreto cessa di aver vigore.
Art. 46

Il Duce ha il diritto di amnistia, di grazia e di indulto.

Art. 47

Al Duce spetta di istituire ordini cavallereschi e stabilirne gli statuti.

Art. 48

I titoli di nobiltà sono mantenuti a coloro che vi hanno diritto. Al Duce spetta di conferirne di nuovi.

§ III – Il Governo

Art. 49

Il Governo della Repubblica è costituito dal Capo del Governo e dai Ministri.

Art. 50

Il Capo del Governo è nominato e revocato dal Duce. È responsabile verso il Duce dell’indirizzo generale politico del Governo.

Art. 51

Il capo del Governo dirige e coordina l’opera dei Ministri, convoca il consiglio dei Ministri, ne fissa l’ordine del giorno e lo presiede.

Art. 52

Nessuno oggetto può esser posto all’ordine del giorno della Camera, senza il previo assenso del Capo del Governo.

Art. 53

L’assenso del Capo del Governo è necessario per presentazione alla Camera delle proposte di legge di iniziativa dei rappresentanti del lavoro.

Art. 54

I Ministri sono nominati e revocati dal Duce su proposta del Capo del Governo. Sono responsabili verso il Duce e verso il Capo del Governo di tutti gli atti e provvedimenti dei loro Ministeri.

Art. 55

I sottosegretari di Stato sono nominati e revocati dal Duce, su proposta del Capo del Governo, sentito il Ministro competente.

Art. 56

A giudicare dei reati commessi da un Ministro con abuso delle sue funzioni, è competente la Camera costituita in Corte giurisdizionale. L’azione è esercita da Commissari nominati all’inizio di ogni legislatura e sostituiti in caso di vacanza, dal Presidente della Camera. Contro le sentenze pronunziate dalla Camera come Corte giurisdizionale non è dato alcun ricorso.

§ IV – Le forze armate

Art. 57

Le forze armate hanno lo scopo di combattere per la difesa dell’onore, della libertà e del benessere della Nazione. Esse comprendono l’Esercito, la Marina da guerra, l’Aeronautica.

Art. 58

La bandiera di combattimento per le forze armate è il tricolore, con fregio e una frangia marginale di alloro, e ai quattro lati il fascio repubblicano, una granata, un’àncora e un’aquila.

Art. 59

La coscrizione militare è un servizio d’onore per il popolo italiano, ed un privilegio per la parte più eletta di esso. Tutti i cittadini hanno il diritto e il dovere di servire in armi la Nazione, quando ne abbiano la idoneità fisica e non si trovino nelle condizioni di indegnità morale, stabilite dalla legge.

Art. 60

Al Duce soltanto spettano nei riguardi delle forze armate i poteri di coordinamento; di nomina e di promozione, di ispezione, di dislocazione delle truppe, di mobilitazione.

§ V – La giurisdizione

Art. 61

La giurisdizione garantisce l’attuazione del diritto positivo nello svolgimento dei fatti e dei rapporti giuridici.

Art. 62

Le sentenze sono emanate nel nome della Legge, della quale esse realizzano la volontà.

Art. 63

La funzione giurisdizionale è esercitata dai giudici, collegiali o unici, nominati dal Duce. La loro organizzazione, la loro competenza per materia e per territorio, la procedura che debbono seguire nello svolgimento delle loro funzioni, sono regolate dalla legge.

Art. 64

Una sola Suprema Corte di cassazione è costituita per tutta la Repubblica. Essa ha sede in Roma. Ad essa spetta di assicurare un’uniforme interpretazione e applicazione del diritto da parte dei giudici di merito, e di risolvere i conflitti di attribuzione tra l’autorità giudiziaria e quella amministrativa.

Art. 65

Nell’esercizio delle sue funzioni è garantita piena indipendenza alla magistratura: questa è vincolata dalla legge e soltanto dalla legge.

Art. 66

Nessuno può esser punito per un fatto che non sia espressamente preveduto dalla legge, né con pene che non siano da essa stabilite, né senza un giudizio svolto con le regole da essa fissate.

Art. 67

Nei casi che debbono essere determinati con legge approvata dall’Assemblea della Camera, possono essere istituiti tribunali straordinari per un tempo limitato, e per determinati delitti. La giurisdizione dei tribunali militari non può essere estesa a cittadini non in servizio militare se non in tempo di guerra e per i reati espressamente preveduti dalla legge.

Art. 68

Quando lo Stato e gli altri enti pubblici agiscono nel campo del diritto privato sono pienamente soggetti al codice civile e alle altre leggi.

Art. 69

Gli organi amministrativi dello Stato e degli altri enti pubblici debbono ispirarsi nell’esercizio delle loro funzioni alla realizzazione del principio della giustizia nell’amministrazione.

Art. 70

Colui che sia stato leso da un atto amministrativo in suo interesse legittimo, dopo l’esperimento dei ricorsi gerarchici, in quanto ammessi, può proporre contro l’atto stesso ricorso per violazione di legge, eccesso di potere e incompetenza dinanzi agli organi della giustizia amministrativa. Questi, oltre alla generale competenza di legittimità, hanno competenza di merito nei casi stabiliti dalla legge.

§ VI – La difesa della stirpe

Art. 71

La Repubblica considera l’incremento demografico come condizione per l’ascesa della Nazione e per lo sviluppo della sua potenza militare, economica, civile.

Art. 72

La politica demografica della Repubblica si svolge con tre finalità essenziali: numero, sanità morale e fisica, purità della stirpe.

Art. 73

Presupposto della politica demografica è la difesa della famiglia, nucleo essenziale della struttura sociale dello Stato. La Repubblica la attua proteggendo e consolidando tutti i valori religiosi e morali che cementano la famiglia, e in particolare:

col favore accordato al matrimonio, considerato anche quale dovere nazionale e fonte di diritti, perché esso possa raggiungere tutte le sue alte finalità, prima: la procreazione di prole sana e numerosa;
col riconoscimento degli effetti civili al sacramento del matrimonio, disciplinato nel diritto canonico;
col divieto di matrimonio di cittadini italiani con sudditi di razza ebraica, e con la speciale disciplina del matrimonio di cittadini italiani con sudditi di altre razze o con stranieri;
con la tutela della maternità;
con la prestazione di aiuti e assistenza per il sostenimento degli oneri familiari. Speciali agevolazioni spettano alle famiglie numerose.
Art. 74

La protezione dell’infanzia e della giovinezza è un’elevata funzione pubblica, che la Repubblica svolge, anche a mezzo appositi istituti, con l’ingerenza nell’attività educativa familiare (art. 76), con la protezione della filiazione illegittima e con l’assistenza tutelare dei minori abbandonati.

§ VII – L’educazione e l‘istruzione del popolo

SEZIONE I – Dell’Educazione

Art. 75

La Repubblica pone tra i suoi principali compiti istituzionali l’educazione morale, sociale e politica del popolo.

Art. 76

L’educazione dei figli, conforme ai principi della morale e del sentimento nazionale, è il supremo obbligo dei genitori. Lo Stato, col rispetto dei diritti e dei doveri della patria potestà, invigila perché l’educazione familiare raggiunga i suoi fini di formare l’onesto cittadino, lavoratore e soldato, e si avvale degli ordinamenti scolastici per integrare e indirizzare l’opera della famiglia. Ove quest’opera manchi, provvede a sostituirla, affidandone lo svolgimento a istituti di pubblica assistenza o a privati.

Art. 77

Organo fondamentale dell’educazione politica del popolo è il Partito fascista repubblicano. Esso è riconosciuto come organo ausiliario dello Stato, e ha quali compiti essenziali:

difendere e potenziare la rivoluzione, secondo i principi della dottrina di cui esso è assertore e depositario;
suscitare e rafforzare nel popolo la coscienza, la passione, la [corretto da Mussolini in "la passione della"] solidarietà nazionale, e il dovere di subordinare tutti gli interessi individuali e collettivi, all’interesse supremo della libertà della Nazione nel mondo;
diffondere nel popolo la conoscenza dei problemi internazionali e interni che interessano l’Italia.
Art. 78

L’iscrizione al P.F.R. non importa alcun privilegio o speciale diritto. Essa importa il dovere di votarsi fino al limite estremo delle proprie forze, con assoluto disinteresse e purità d’intenti, alla causa nazionale. Fuor del campo delle attività aventi carattere preminentemente politico, l’iscrizione al P.F.R. non è condizione né costituisce titolo di preferenza per l’assunzione o la conservazione di impieghi e cariche né per il trattamento morale ed economico dei lavoratori.

SEZIONE II – Dell’Istruzione

Art. 79

La scuola si propone la formazione di una cultura del popolo, inspirata agli eterni valori della razza italiana e della sua civiltà.

Art. 80

I programmi scolastici sono fissati in vista della funzione della scuola per l’educazione delle nuove generazioni.

Art. 81

L’accesso agli studi e la loro prosecuzione sono regolati esclusivamente col criterio delle capacità e delle attitudini dimostrate. Collegi di Stato garantiscono la continuazione degli studi ai giovani capaci non abbienti.

Art. 82

L’istruzione elementare, da impartirsi in scuole chiare e salubri, è obbligatoria e gratuita per tutti i cittadini della Repubblica.

Art. 83

La Repubblica Sociale Italiana considera fondamento e coronamento dell’istruzione pubblica l’insegnamento della Dottrina cristiana secondo la forma ricevuta dalla tradizione cattolica: perciò l’insegnamento religioso è obbligatorio nelle scuole pubbliche elementari e medie. La legge può stabilire particolari casi di esenzione.

Art. 84

La fondazione e l’esercizio di istituti privati di istruzione sono ammessi soltanto previa autorizzazione dello Stato e sotto controllo di questo sull’organizzazione, i programmi e la capacità morale e formazione scientifica degli insegnanti.

§ VIII – L’amministrazione locale

Art. 85

I Comuni e le Provincie sono enti ausiliari dello Stato. La loro istituzione e le loro circoscrizioni sono regolate dalla legge.

Art. 86

I Comuni e le Provincie hanno come fine esclusivo la tutela degli interessi amministrativi dei cittadini che loro appartengono. A tal fine sono muniti dallo Stato di poteri, che debbono esercitare coordinandoli e subordinandoli agli interessi superiori della Nazione. Nello svolgimento delle loro funzioni i Comuni e le Province agiscono in modo autonomo, secondo i principi del decentramento amministrativo, ma sono sottoposti al controllo di legittimità e, nei casi stabiliti dalla legge, al controllo di merito degli organi diretti dallo Stato.

Art. 87

Gli organi dell’amministrazione autonoma locale sono stabiliti dalla legge. I Consigli comunali e provinciali sono eletti col sistema del suffragio universale diretto dai cittadini lavoratori residenti domiciliati nel territorio del Comune o della Provincia.

Art. 88

I Consigli eleggono nel loro seno il Podestà del Comune e il Preside della Provincia. La legge stabilisce le cause di incapacità, ineleggibilità, incompatibilità per le nomine a Podestà o a Preside. Tali nomine sono soggette all’approvazione dello Stato, da darsi con decreto del Duce.

CAPO III – DIRITTI E DOVERI DEL CITTADINO

Art. 89

La cittadinanza italiana si acquista e si perde alle condizioni e nei modi stabiliti dalla legge, sulla base del principio che essa è titolo d’onore da riconoscersi e concedersi soltanto agli appartenenti alla stirpe ariana italiana. In particolare la cittadinanza non può essere acquistata da appartenenti alla razza ebraica e a razze di colore.

Art. 90

I sudditi di razza non italiana non godono del diritto di servire l’Italia in armi, né, in genere, dei diritti politici: godono dei diritti civili entro i limiti segnati dalla legge, secondo il criterio della loro esclusione da ogni attività, culturale ed economica, che presenti un interesse pubblico, anche se svolgentesi nel campo del diritto privato. In quanto non particolarmente disposto vale per essi, in quanto applicabile, il trattamento riservato agli stranieri.

Art. 91

Fondamentale dovere del cittadino è quello di collaborare con tutte le sue forze, e in ogni campo della sua attività, al raggiungimento dei fini supremi della Repubblica Sociale Italiana, accettando volenterosamente e disciplinatamente, gli oneri, le restrizioni ed i sacrifici che rispondono alle esigenze nazionali, per il principio che non può essere veramente libero se non il cittadino della Nazione libera.

Art. 92

Tutti i cittadini sono uguali dinanzi alla legge.

Art. 93

I diritti civili e politici sono attribuiti a tutti i cittadini. Ogni diritto soggettivo, pubblico e privato, importa il dovere dell’esercizio in conformità del fine nazionale per cui è concesso. A questo titolo lo Stato ne garantisce e tutela l’esercizio.

Art. 94

La libertà personale è garantita. Nessuno può essere arrestato se non nei casi previsti e nelle forme prescritte dalla legge. Nessun cittadino, arrestato in flagrante o fermato per misure preventive, può esser trattenuto oltre tre giorni senza un ordine dell’autorità giudiziaria nei casi previsti e nelle forme prescritte dalla legge.

Art. 95

Il domicilio è inviolabile. Tranne i casi di flagranza, nessuna visita o perquisizione domiciliare è consentita senza ordine dell’autorità giudiziaria nei casi previsti e nelle forme prescritte dalla legge.

Art. 96

A ogni cittadino deve esser assicurata la facoltà di controllo, diretto o a traverso i suoi rappresentanti, e di responsabile critica sugli atti politici e su quelli della pubblica amministrazione, nonché sulle persone che li compiono o vi sono preposte.

Art. 97

La libertà di parola, di stampa, d’associazione, di culto è riconosciuta dalla Repubblica come attributo essenziale della personalità umana e come strumento utile per gli interessi e per lo sviluppo della Nazione. Deve esser garantita fino al limite in cui è compatibile con le preminenti esigenze dello Stato e con la libertà degli altri individui.

Art. 98

L’organizzazione politica è libera. I partiti possono esplicare la loro attività di propaganda delle loro idee e dei loro programmi, purché non in contrasto con i fini supremi della Repubblica.

Art. 99

L’organizzazione professionale è libera. Ma soltanto la Confederazione unitaria del lavoro della tecnica e delle arti, o le associazioni ad essa aderenti e riconosciute dallo Stato, rappresentano legalmente gli interessi di tutte le categorie produttive e sono munite di pubblici poteri per lo svolgimento delle loro funzioni.

Art. 100

È vietata, salva la preventiva autorizzazione dello Stato nel territorio della Repubblica, la costituzione di associazioni aderenti a organizzazioni sindacali o politiche straniere o internazionali, o che ne costituiscano sezioni o comunque conservino con esse collegamenti.

Art. 101

È vietata nel territorio della Repubblica la costituzione di società segrete.

CAPO IV – STRUTTURA DELL’ECONOMIA NAZIONALE

§ I – La produzione e il lavoro

SEZIONE I – La Produzione

Art. 102

Il complesso della produzione è unitario dal punto di vista nazionale. Suoi obiettivi sono il benessere dei singoli e lo sviluppo della potenza della Nazione.

Art. 103

Nel campo della produzione la Repubblica si propone di conseguire l’indipendenza economica della Nazione, condizione e garanzia della sua libertà politica nel mondo. A tale scopo la Repubblica, oltre a promuovere in tutti i modi l’aumento, il perfezionamento della produzione e la riduzione dei costi, fissa, a mezzo dei suoi organi e degli enti idonei, le direttive e i piani generali della produzione nazionale o di settori di questa. All’osservanza di tali direttive e al successo di tali piani sono impegnati tutti i lavoratori, sia nella determinazione degli indirizzi, che nello svolgimento dell’attività produttiva.

Art. 104

Nei rapporti tra le categorie dei vari rami della produzione nazionale, come nel seno di ogni singola impresa, si attua la collaborazione dei diversi fattori della produzione tra loro, il contemperamento dei loro interessi, la loro subordinazione agli interessi superiori della Nazione.

Art. 105

La Repubblica considera la proprietà privata frutto del lavoro e del risparmio individuale, come completamento e mezzo di esplicazione della personalità umana, e ne riconosce la funzione sociale e nazionale, quale un mezzo efficace per sviluppare e moltiplicare la ricchezza e per porla a servizio della Nazione. A questi titoli la Repubblica rispetta e tutela il diritto di proprietà privata e ne garantisce l’esercizio e i trasferimenti sia per atto fra i vivi che per successione legittima o testamentaria, secondo le regole stabilite dal codice civile e dalle altre leggi.

Art. 106

La Repubblica protegge con particolare cura la proprietà rurale, di interesse vitale per l’economia nazionale e per la sanità morale e fisica della stirpe. Perciò favorisce con ogni mezzo il ritorno ai campi, con la costruzione di case coloniche, con le agevolazioni all’acquisto della piccola proprietà rurale da parte del più gran numero di lavoratori, coltivatori diretti. Nei trasferimenti di terreni coltivabili o coltivati non può farsi luogo a frazionamenti che non rispettino l’unità colturale necessaria e sufficiente per il lavoro di una famiglia agricola o per una conveniente coltivazione.

Art. 107

Si può procedere all’espropriazione della proprietà privata per pubblico interesse, nei casi legalmente accertati di pubblica utilità e quando il proprietario abbandoni o trascuri l’esercizio del diritto in modo dannoso per l’economia nazionale. Si può altresì disporre il trasferimento coattivo della proprietà, quando sia di pubblico interesse assegnarne l’esercizio a persone o enti più adatti, ma solo nelle ipotesi espressamente stabilite dalla legge. Sia in caso di espropriazione che di trasferimenti coattivi nel pubblico interesse è dovuta al proprietario una congrua indennità conformemente alle leggi.

Art. 108

La Repubblica considera l’iniziativa privata nel campo della produzione come lo strumento più utile nell’interesse della Nazione, e pertanto la favorisce e la controlla.

Art. 109

L’organizzazione privata della produzione essendo una funzione di interesse nazionale, l’organizzatore dell’impresa è responsabile dell’indirizzo della produzione di fronte alla Repubblica.

Art. 110

L’intervento dello Stato nella gestione di imprese economiche ha luogo nei casi in cui siano in giuoco interessi politici dello Stato, nonché per controllare l’iniziativa privata e per incoraggiarla, integrarla e, quando sia necessario, sostituirla se essa si dimostri insufficiente o manchi.

Art. 111

La Repubblica assume direttamente la gestione delle imprese che controllino settori essenziali per la indipendenza economica e politica del Paese, nonché di imprese fornitrici di prodotti e servizi indispensabili a regolare lo svolgimento della vita economica del Paese. La determinazione delle imprese che si trovino in tale situazione è fatta per legge.

Art. 112

In caso di assunzione della gestione di imprese private, per insufficienza della loro iniziativa, lo Stato la affida ad altro gestore privato, oppure, ma soltanto per il periodo in cui ciò non sia possibile o conveniente, a speciali enti pubblici.

SEZIONE II – Il Lavoro

Art. 113

Il lavoro è il soggetto e il fondamento dell’economia produttiva.

Art. 114

Il lavoro, sotto tutte le sue forme organizzative ed esecutive, intellettuali, tecniche e manuali è un dovere nazionale. Soltanto il cittadino che adempie il dovere del lavoro ha la pienezza della capacità giuridica, politica e civile.

Art. 115

Come l’adempimento del dovere di svolgere l’attività lavorativa secondo le capacità e attitudini di ognuno è pari titolo di onore e di dignità, così la Repubblica assicura la piena uguaglianza giuridica di tutti i lavoratori.

Art. 116

La Repubblica garantisce a ogni cittadino il diritto al lavoro, mediante l’organizzazione e l’incremento della produzione e mediante il controllo e la disciplina della domanda e dell’offerta di lavoro. Il collocamento dei lavoratori è funzione pubblica, svolta gratuitamente da idonei uffici dall’organizzazione professionale riconosciuta.

Art. 117

Poiché la attuazione, rigorosa e inderogabile, delle condizioni fondamentali costituenti garanzia del lavoro è di preminente interesse pubblico, la disciplina del rapporto di lavoro è affidata alla legge o alle norme da emanarsi dall’organizzazione professionale riconosciuta. Tali norme si inseriscono automaticamente nei contratti individuali, i quali possono contenere norme diverse ma soltanto più favorevoli al lavoratore.

Art. 118

La retribuzione del prestatore di lavoro deve corrispondere alle esigenze normali di vita, alle possibilità della produzione e al rendimento del lavoro. Oltre alla retribuzione normale saranno corrisposti al lavoratore anche nello spirito di solidarietà tra i vari elementi della produzione, assegni in relazione agli oneri familiari.

Art. 119

L’orario ordinario di lavoro non può superare le 44 ore settimanali e le 8 ore giornaliere, salvo esigenze di ordine pubblico per periodi determinati e per settori produttivi da stabilirsi per legge. La legge o le norme emanate dalle associazioni professionali riconosciute stabiliscono i casi e i limiti di ammissibilità del lavoro straordinario e notturno e la misura della maggiorazione di retribuzione rispetto a quella dovuta per il lavoro ordinario.

Art. 120

Il lavoratore ha diritto a un giorno di riposo ogni settimana, di regola in coincidenza con la domenica e a un periodo annuale di ferie retribuito.

Art. 121

Ogni lavoratore ha diritto a sciogliere il rapporto di lavoro a tempo indeterminato. Se il licenziamento avviene senza sua colpa, il lavoratore ha diritto, oltre a un congruo preavviso, a un’indennità proporzionata agli anni di servizio.

Art. 122

In caso di morte del lavoratore, quanto a questo spetterebbe se fosse licenziato senza sua colpa, spetta ai figli, al coniuge, ai parenti conviventi a carico o agli eredi, nei modi stabiliti dalla legge.

Art. 123

La previdenza è un’alta manifestazione del principio di collaborazione tra tutti gli elementi della produzione, che debbono concorrere agli oneri di essa. La Repubblica coordina e integra tale azione di previdenza, a mezzo dell’organizzazione professionale, e con la costituzione di speciali Istituti per l’incremento e la maggiore estensione delle assicurazioni sociali. L’opera convergente dello Stato e delle categorie interessate deve garantire a tutti i lavoratori piena assistenza per la vecchiaia, l’invalidità, gli infortuni sul lavoro, le malattie, la gravidanza e puerperio, la disoccupazione involontaria, il richiamo alle armi.

Art. 124

Allo scopo di dare e accrescere la capacità tecnica e produttiva e il valore morale dei lavoratori e di agevolare l’azione selettiva tra questi, la Repubblica anche a mezzo dell’associazione professionale riconosciuta, promuove e sviluppa l’istruzione professionale.

§ II – La gestione socializzata dell’impresa

Art. 125

La gestione dell’impresa, sia essa pubblica che privata, è socializzata. Ad essa prendono parte diretta coloro che nell’impresa svolgono, in qualunque forma, una effettiva attività produttiva.

Art. 126

Ogni impresa ha un capo, responsabile di fronte allo Stato, politicamente e giuridicamente, dell’andamento della produzione e della disciplina del lavoro nell’impresa.

Art. 127

Il capo dell’impresa pubblica è nominato dal Governo.

Art. 128

Il capo dell’impresa privata è l’imprenditore. Imprenditore è colui che ha organizzato l’impresa, determinandone l’oggetto e lo scopo economico, o colui che ne ha preso posto. Nelle imprese individuali o ad amministratore unico, il capo dell’impresa è il titolare o l’amministratore unico. Nelle imprese con organo amministrativo collegiale il capo dell’impresa è stabilito, dallo statuto o dall’atto costitutivo, nella persona del Presidente del Consiglio di amministrazione o dell’Amministratore delegato o di un tecnico, che può essere estraneo al Consiglio, e a cui si conferiscono le funzioni di Direttore generale.

Art. 129

Le aziende pubbliche sono amministrate da un Consiglio di gestione eletto dai lavoratori dell’impresa, operai, impiegati tecnici. Il Consiglio di gestione decide su tutte le questioni inerenti all’indirizzo e allo svolgimento della produzione dell’impresa nel quadro del piano unitario nazionale determinato dalla Repubblica a mezzo dei suoi competenti organi; forma il bilancio dell’impresa e delibera la ripartizione degli utili determinando la parte spettante ai lavoratori; decide sulle questioni inerenti alla disciplina e alla tutela del lavoro.

Art. 130

Nelle imprese private, degli organi collegiali di amministrazione, formati secondo la legge, gli atti costitutivi e gli statuti fanno parte i rappresentanti degli operai, impiegati e tecnici dell’impresa in numero non inferiore a quello dei rappresentati eletti dall’assemblea dei portatori del capitale sociale, e uno o più rappresentanti dello Stato qualora esso partecipi alla formazione del capitale.

Art. 131

Nelle imprese individuali e in quelle per le quali l’atto costitutivo e gli statuti prevedano un amministratore unico, qualora esse impieghino complessivamente almeno cinquanta lavoratori, verrà costituito un consiglio di operai, impiegati e tecnici dell’impresa di almeno tre membri. Il Consiglio collabora col titolare dell’impresa e con l’amministratore unico alla gestione dell’impresa. Deve esser sentito per la formazione del bilancio e per le decisioni che importino trasformazione della struttura, della forma giuridica e dell’oggetto dell’impresa.

Art. 132

In ogni impresa, che occupi più di dieci lavoratori, si costituisce il consiglio di fabbrica, eletto da tutti gli operai, impiegati e tecnici, il quale partecipa alla formazione dei regolamenti interni e alla risoluzione delle questioni che possano sorgere nella loro applicazione. Nelle imprese in cui non vi sia un organo collegiale, di amministrazione né il consiglio dei lavoratori, il capo dell’impresa deve sentire il parere del consiglio di fabbrica nelle questioni riguardanti la disciplina del lavoro, e può sentirlo nelle altre questioni che egli intenda di sottoporgli.

Art. 133

La legge, in relazione alla situazione economica, stabilisce i limiti massimi e i modi con cui può esser determinato il compenso al capitale impiegato nell’impresa, in generale o per i vari tipi di esse. Entro questi limiti e nei modi consentiti la determinazione del compenso è stabilita convenzionalmente.

Art. 134

Gli utili dell’impresa, dopo la deduzione del compenso dovuto al capitale, sono distribuiti tra il capo, gli amministratori e gli operai, impiegati e tecnici dell’impresa, nelle proporzioni fissate per legge, per norma collettiva o, in mancanza degli atti costitutivi, dagli statuti e dalle deliberazioni degli organi di gestione. La parte degli utili non distribuita, è assegnata alla riserva nei limiti minimi e massimi stabiliti dalla legge, e se vi sia ancora un’eccedenza, questa è devoluta allo Stato che l’amministra o la impiega per scopi di carattere sociale.

§ III – L’organizzazione professionale

Art. 135

Tutte le categorie di prestatori d’opera e di lavoratori, operai, impiegati, dirigenti, di artigiani, di imprenditori, di professionisti e gli artisti sono organizzati in un’organizzazione professionale nazionale. Nel seno dell’organizzazione unica possono formarsi sezioni per le varie branche della produzione e per le varie categorie professionali.

Art. 136

L’associazione professionale unica si ispira ai principi della Repubblica Sociale Italiana e ne cura l’attuazione nel campo dell’economia nazionale: essa costituisce l’organizzazione giuridica a traverso la quale si opera la trasformazione di tutte le forze della produzione in forze nazionali, e si realizza la loro partecipazione stabile alla costituzione e alla vita dello Stato.

Art. 137

L’organizzazione professionale unica ha l’esclusiva integrale rappresentanza degli interessi delle categorie in essa organizzate. In virtù di questa integrale rappresentanza, essendo gli interessi delle categorie produttive, considerate nella loro funzione nazionale, di supremo interesse statale, essa è giuridicamente riconosciuta come ente ausiliario dello Stato.

Art. 138

L’associazione professionale unica ha come precipui compiti istituzionali, che essa può assolvere anche a traverso le associazioni che si formino nel suo seno: tutelare gli interessi delle categorie rappresentate, contemperandoli tra loro e subordinandoli ai fini superiori della Nazione; promuovere in tutti i modi l’incremento qualitativo e quantitativo della produzione, e la riduzione dei costi e dei prezzi di beni e servizi, nell’interesse dei produttori e dei consumatori; curare che gli appartenenti alle categorie produttive si uniformino, nell’esercizio della loro attività, ai principi dell’ordinamento sociale nazionale e agli obblighi che vi derivano; assicurare l’uguaglianza giuridica tra i vari elementi della produzione, suscitarne e rafforzarne la solidarietà tra loro e verso la Nazione; promuovere ed attuare provvedimenti e istituti di previdenza sociale fra i produttori; coltivare l’istruzione, specialmente professionale, e l’educazione morale, politica e religiosa degli appartenenti alle categorie; prestare assistenza ai produttori rappresentati; in genere svolgere tutte le altre funzioni utili al mantenimento della disciplina della produzione e del lavoro.

Art. 139

All’associazione professionale unica, per l’assolvimento dei suoi compiti lo Stato affida l’esercizio di poteri:

normativo, per cui, nelle forme e nei modi stabiliti dalla legge, essa detta norme giuridiche obbligatorie per la disciplina dei rapporti collettivi di lavoro e può dettare, ove se ne verifichi la necessità, norme giuridiche obbligatorie per la disciplina dei rapporti collettivi economici ai fini del coordinamento della produzione;
fiscale, per cui, onde sostenere le spese obbligatorie facoltative connesse alle sue funzioni, può imporre contributi a tutti i lavoratori rappresentati nella misura massima stabilita dalla legge procedendo all’esazione colle procedure e i privilegi per la riscossione delle imposte;
conciliativo, per cui deve esperire il tentativo di conciliazione nelle controversie individuali e collettive relative ai rapporti di lavoro e all’applicazione delle norme collettive economiche da esso emanate: tale tentativo di conciliazione costituisce un presupposto necessario per la proposizione delle relative controversie giudiziarie;
disciplinare, per cui può infliggere ai rappresentati sanzioni disciplinari determinate nello Statuto dell’associazione, per inosservanza ai doveri nascenti dall’ordinamento sociale nazionale; al fine di accertare tali eventuali inosservanze essa può disporre gli opportuni controlli, a mezzo di propri organi e dei fiduciari di fabbrica, ove siano istituiti;
consultivo, per cui il suo parere deve esser sentito dalle amministrazioni dello Stato, nelle materie interessanti la disciplina della produzione e del lavoro.
Art. 140

Nello svolgimento delle sue funzioni la Confederazione unica gode di piena autonomia. I suoi atti sono solamente sottoposti al controllo di legittimità, e le persone al controllo politico dello Stato, a mezzo degli organi designati dalla legge.

Art. 141

Per la risoluzione delle controversie collettive relative alla formazione, alla revisione o alla interpretazione delle norme collettive di lavoro o alla interpretazione delle norme collettive economiche, emanate dall’organizzazione professionale riconosciuta è istituita la Magistratura del Lavoro, organo della Magistratura ordinaria. La Magistratura del Lavoro è costituita da tre giudici dell’ordine giudiziario e da due giudici esperti, da scegliere in appositi albi da tenersi nei modi stabiliti dalla legge. Alla proposizione delle azioni per la risoluzione delle controversie collettive è legittimata soltanto l’Associazione professionale riconosciuta o, previa autorizzazione, le associazioni ad essa aderenti. In mancanza, l’azione può essere proposta dal Pubblico Ministero, il cui ricorso deve esser notificato alla Associazione professionale riconosciuta, che può intervenire nel giudizio. Nelle controversie collettive promosse dalla Associazione professionale, l’intervento del Pubblico Ministero è obbligatorio a pena di nullità. Le decisioni della Magistratura del Lavoro in sede di controversie collettive hanno la stessa efficacia delle norme collettive emanate dalla organizzazione professionale riconosciuta. Tali decisioni non possono essere impugnate se non per errori di procedura dinanzi alla Suprema Corte di Cassazione.

Art. 142

Poiché l’ordinamento giuridico della Repubblica fornisce tutti i mezzi per la composizione equa e pacifica di ogni controversia collettiva nel campo del lavoro e della produzione, lo sciopero, la serrata, l’inosservanza delle norme collettive ed economiche e delle sentenze della Magistratura del Lavoro, e in genere tutti gli altri atti di lotta sociale, sono puniti quali delitti contro l’economia nazionale.



domenica 29 luglio 2012

PIERRE DRIEU LA ROCHELLE



“Noi siamo uomini d’oggi. Siamo soli. Non abbiamo più dei. Non abbiamo più idee. Non crediamo né a Gesù Cristo né a Marx. Bisogna che immediatamente, subito, in questo stesso attimo, costruiamo la torre della nostra disperazione e del nostro orgoglio. Con il sudore ed il sangue di tutte le classi dobbiamo costruire una patria come non si è mai vista; compatta come un blocco d’acciaio, come una calamita. Tutta la limatura d’Europa vi si aggregherà, per amore o per forza. E allora davanti al blocco della nostra Europa, l’Asia, l’America e l’Africa diventeranno polvere“.

«Morirò con gioia selvaggia all’idea che Stalin sarà il padrone del mondo. Finalmente un padrone. È bene che gli uomini abbiano un padrone il quale faccia loro sentire l’onnipresenza feroce di Dio, l’inesorabile voce della legge» (27 dicembre 1942)

«Quello che mi piace nel trionfo del comunismo è non solo la scomparsa di una borghesia detestabile e ottusa, ma anche l’inquadramento del popolo e la rinascita dell’antico dispotismo sacro, dell’aristocrazia assoluta, della teocrazia definitiva. Scompariranno così tutte le assurdità del Rinascimento, della riforma, della rivoluzione americana e francese. Si torna all’Asia; ne abbiamo bisogno» (25 aprile 1943)

«In mancanza del fascismo (…) solo il comunismo può mettere veramente l’Uomo con le spalle al muro costringendolo ad ammettere di nuovo, come non avveniva più dal Medioevo, che ha dei Padroni. Stalin, più che Hitler, è l’espressione della legge suprema» (2 settembre 1943)

Siamo tutti degni uno dell’altro, tutti gli stessi azionisti della società industriale moderna del capitale di miliardi di carta e di migliaia di ore di lavoro fastidioso e vano. Che ciò sia a Kharkov, o a Patin, a Shanghai, o a Philadelphia, non è poi la stessa cosa? Non esistono altro che i moderni, gente piena di affari, gente del plusvalore o del salario, che non pensa che a questo e non discute che di questo.

Non barate, come non baro io. Condannatemi a morte. Non sono soltanto un francese, ma un europeo. Anche voi lo siete, scientemente, o incoscientemente. Ma abbiamo giocato e io ho perduto. Ergo, la morte.

Il suicidio è una viltà, ma una viltà di cui non tutti hanno il coraggio.

Da ragazzo ho giurato a me stesso di restare fedele alla mia giovinezza: un giorno ho cercato di mantenere la parola.

Non ho creduto affatto, dandomi la morte, di contraddire all’idea dell’immortalità che ho sempre sentita viva dentro di me. Era proprio perchè credevo nell’immortalità che mi precipitavo così vivamente verso la morte. Io professavo che ciò che si chiama morte non è che una soglia al di là della quale la vita prosegue, o perlomeno qualcosa di ciò che sia chiama vita, qualcosa che non ne è l’essenza. Credevo, del resto, che possa continuare soltanto ciò che è cominciato; se l’anima continua, è perchè non ha mai cessato di esistere… Certo, rigettavo l’idea volgare della sopravvivenza di un’ anima individuale. Non pensavo certamente di perdere, o di salvare la mia anima personale mettendo fine ai miei giorni.

L’uomo esiste soltanto nel combattimento… Vive soltanto se rischia la morte.

Oltre alla solitudine, l’altra mia grande ricchezza è stata la malinconia. La gente non mi ha capito e mi ha creduto uggioso, annoiato. Io stesso, a volte, non ho capito. Malinconia infinita e deliziosa, fatta del rimpianto di ciò che non avevo perennemente lenito dal piacere per ciò che avevo. Malinconia di essere poco attivo, statico, che si risolveva nel piacere di essere lento e quasi immobile; malinconia di non essere sposato che sfumava, dopo ogni sbandata, nel piacere di non esserlo più; malinconia di vivere in un paese in decadenza che trapassava nel piacere di gustare tanti residui della laidezza del tempo; malinconia di non essere pittore, o poeta, che si risolveva nel piacere di fare grandi scorpacciate di storia; malinconia di non essere un politico, che diventava piacere di scrivere qualche pagina libera. Rimpiango solo di non essermi accettato e riconosciuto per quello che ero, di aver fatto il processo alle mie intenzioni. Tutto quel senso di inferiorità, di persecuzione e di colpa mi ha tormentato e svilito agli occhi miei e altrui. Ma in fondo non posso veramente rammaricarmene, perché senza quell’elemento di inquietudine e di amarezza sarei stato esattamente ciò che potevo apparire ad alcuni: un abietto gaudente senza inferiorità. Ho anche sfruttato il vantaggio rappresentato, per il sibarita, dall’essere dolcemente mistico. Non mi sono privato della compagnia degli dei. E ho visto Dio attraverso le cose. E talvolta, nonostante tutto, sono stato visitato dalla compassione e dall’angoscia.

Io, scrivo sotto l’ombra d’un ponte una frase anonima che nessuno leggerà mai. Ma è una frase detta per sempre. Come per sempre questa piccola maschera di pietra è scolpita in cima alla cattedrale, dove in quattro secoli è stata guardata distrattamente due volte soltanto dagli operai addetti alle riparazioni. Più i dettagli dei miei giorni, delle mie ore, dei miei minuti sono infimi e più mi ci aggrappo; più mi dedico all’effimero e più l’effimero mi distacca… No, mi lega all’eternità che cade nel mio petto goccia a goccia… No, è una goccia sospesa per sempre e che non cade mai.


venerdì 20 luglio 2012

VOLONTà DI POTENZA


Il fronte ideologico che nel secolo XX ha combattuto la pratica distruttiva della tecnica moderna, ormai da qualche decennio non esiste più. La saldatura tra Usura e Umanitarismo universalista, all’origine del pensiero unico, ha portato come conseguenza l’esaurirsi di ogni prospettiva di opposizione al sistema di nichilismo integrale che ci governa.

E dire che, almeno dai tempi di Nietzsche, qui da noi, in Europa, si era giunti a una precoce diagnosi circa le perversioni della modernità. Ed era sorto alla fine un movimento complesso, in grado di generare anticorpi efficaci sotto tutti gli aspetti: da quello filosofico a quello esistenziale, da quello politico a quello dei valori sociali, immaginali e di legame popolare. Se la rivoluzione nietzscheana era consistita soprattutto nella scoperta dello spirito rovinoso del Moderno, non pochi erano stati coloro che, su quella scia, si erano gettati a recuperare l’arcaico, per volgerlo in modernissimo strumento anti-moderno. Basta pensare che, nel cuore della lotta al nichilismo, noi troviamo alcuni dei maggiori teorici della rivolta militante, totalitaria e radicale: da Klages a Jünger, da Bertram a Spengler a Baeumler fino a Heidegger… e secondo alcuni fino a Rosenberg… ma possiamo metterci senz’altro anche Marinetti…

Si tratta di questo: se il nichilismo moderno veicola un potere tecnologico privo d’anima e pervertito, che non riconosce il superiore dall’inferiore e che conduce al disumano, allora occorrerà sviluppare un nichilismo ancora maggiore, ancora più oltranzista, ma di segno positivo, costruttivo e super-umano… al fondo del quale si avrà il rovesciamento dei sottovalori cristiano-umanitario-egualitaristi e il raddrizzamento dell’essere secondo la parola originaria. Oltrepassamento, insomma, dell’uomo borghese pregno di mediocrità, elaborazione dell’individuo differenziato, elevazione della comunità eroica che domina la tecnica, restaura gli arcaismi delle gerarchie del valore e instaura il potere che vige in natura. La “filosofia della crisi” non fece, in effetti, che produrre una Lebensphilosophie, una filosofia neopagana della vita e della rivendicazione del sacro che è nel bios.

Conosciamo, lungo questa strada, qual’è stato il senso del cammino indicato da Heidegger. Il filosofo arcaico che parlava i linguaggi del boscaiolo con la lama etimologica di un Eraclito moderno lo disse più volte e ben chiaro: il nichilismo che sta affogando la nostra civiltà non va tanto condannato, quanto lucidamente diagnosticato. Esso, a ben guardare, nasconde la potenza di un progetto che va nel senso profetizzato da Nietzsche: una nuova umanità, un nuovo tipo di uomo – ma un uomo legato al valore e radicato al suo suolo – deve imporsi per far compiere alla storia il suo ultimo balzo possibile. Per vedere ciò che solitamente viene soltanto guardato, occorre un nuovissimo sguardo pre-socratico. Non contro, ma oltre il nulla.

Un piccolo, ma prezioso libro di Guillaume Faye, Per farla finita col nichilismo (Società Editrice Barbarossa), giunge a proposito per rammentare a noi, sfibrati testimoni dell’assurdo quotidiano, quanto profondo sia il bacino di infusione in cui si formarono le più acuminate idee europee di rivolta contro il mondo moderno. Heidegger, in questo senso, è stato un vertice.

Come si sa, il pensatore della Foresta Nera giudicò che l’annunzio di Nietzsche sulla morte di Dio concluse la metafisica occidentale, aprendo nuovi spazi al possibile. Quello che si crea nel momento in cui irrompe la perdita dei valori è una volontà sovrumanista di superamento e insieme di restaurazione. Dice Faye che Heidegger «si impegna sui sentieri del dopo-nichilismo» proponendo di «ristabilire un “vincolo etico” tra l’essere umano preso nella sua essenza e il suo mondo, non più secondo i principi d’ordine universale». Infatti: l’etica volontarista che dovrà agire sull’ignoto terreno della post-modernità sarà rappresentata da forme vitali non assolute, ma relative. Heidegger condannò la tirannia dell’umanitarismo nato dalla rottura giudeo-cristiana tra uomo e natura. Certe dispotiche trascendenze, secondo lui, avevano teso trappole e inganni, facendo dimenticare all’uomo la propria identità particolare.

Ecco perché, dovendo agire in questa vita per questo uomo, la filosofia dell’avvenire pensa la volontà di potenza come faccenda di questo mondo: la mano del Superuomo sulla tecnica. Anziché rimanere schiavi di una tecnica profana e mercantile, Heidegger propone di concepire un dominio dell’uomo cosciente e creatore sul potere della materia. Come l’antico artigiano, l’artiere, l’homo faber, univano la techne al logos e al mythos, così – pensa Heidegger – si dovrà riallacciare l’arcaico nesso tra volontà e potenza.

Ma dove trovare l’uomo giusto, la giusta volontà atta a scardinare il nichilismo debole del mondo attuale? «Sarà – risponde Faye parafrasando Heidegger – dove risiede il più alto nichilismo… ma sino al punto in cui si dà la possibilità di distruggerlo: nel regno scientifico della potenza tecnica».

In questo riappropriarsi della tecnica, ma in maniera oltranzista e secondo un progetto di rovesciamento, si attua per altro il contromovimento precisato da Jünger al tempo di Oltre la linea. Dato che «tra il caos e il niente c’è una decisione», esiste la possibilità concreta per una volontà di opposizione al disfattismo dell’era presente, così da fare spazio di nuovo e finalmente all’antico nomos, «inteso come tradizione».

Il nichilismo “positivo” auspicato da Heidegger, quello in grado di riassestare il piano inclinato della storia e di produrre la rinascita della grecità arcaica, scaturirà non da una riflessione o da un buon proposito, ma da una lotta: «una lotta è necessaria per decidere quale umanità sia capace dell’incondizionato compimento del nichilismo». Solo una lotta per il padroneggiamento della tecnica dal lato tradizionale «può ancora salvare la soggettività nella superumanità», si legge in Oltrepassamento della metafisica. Non una qualunque umanità, sottolinea inoltre Heidegger, sarà chiamata a «realizzare storicamente il nichilismo incondizionato». Heidegger raccomandò sempre di non smarrire il senso dell’appartenenza e del legame con la provenienza. Sue erano le invocazioni al Bodenständigkeit, il radicamento al suolo, e al «rimanere nella protezione entro ciò che ci è parente».

Faye vuole ricordarci che Heidegger non fu contro il suo tempo per spirito reazionario. Il suo essere “inattuale”, alla maniera di Nietzsche, si colloca nel futuro e nell’ipotesi del superamento dell’umanità umanitaria, quale è stata costruita razionalmente dal cristianesimo e poi ossificata dal mercantilismo liberale. Heidegger propone la lotta e il rischio, ripensa il verso di Hölderlin: «Ma dove c’è il pericolo, cresce anche ciò che salva», e conclude: «Noi guardiamo entro il pericolo e scorgiamo il crescere di ciò che salva». Questa volontà di vivere pericolosamente, questa volontà di volontà, lungi dall’essere fine a se stessa, chiede strumenti per abbattere il dominio del tecno-mondialismo, gestito da chi «trasforma la Terra in mercato mondiale… risolvendo così ogni ente in un affare di calcolo», come è scritto in Sentieri interrotti. E li trova nella volontà di costruire un progetto, innestato in quella che Faye chiama la terza età o età apollinea: quando la volontà di potenza vede con chiarezza, in tutte le sue sfumature, la possibilità di costruire l’ordine di una nuova Ellade. C’è, in questo breve testo di Faye – vecchio di trent’anni, ma nuovo nel ridare alla figura heideggeriana l’inquadratura sovrumanista che le compete – ciò che Francesco Boco, nell’introduzione, definisce indiretto lascito di Giorgio Locchi, un autore ben noto allo scrittore francese ma troppo poco, invece, alla cultura italiana. Effettivamente, Faye non fa che mettere su Heidegger il medesimo accento che questi mise su Nietzsche. In tutti i casi, si vide nella volontà di potenza il cardine di un annuncio. E questo annuncio contiene una sorta di chiamata all’azione, per vedere se la negatività del contemporaneo – il nichilismo – non possa essere volta nella positività del futuribile. E la negazione non possa diventare una grande affermazione.

Diabolico cesellatore della parola, virtuoso assemblatore dei significati sottesi al variare dei prefissi, Heidegger dice cose inequivoche, al di là di certi occultismi lessicali, che Rosenberg ingenerosamente definì una volta come “cabalistici”.

La cerca heideggeriana dell’Inizio nella filosofia eraclitèa della lotta, non era un vezzo di erudito, ma un messaggio ideologico ben preciso. Per fare solo un esempio, la sua esortazione a rientrare in possesso di «ciò che conduce l’alba del pensiero entro il destino della terra occidentale», non è semplicemente un argomento filosofico, ma un indicatore propriamente politico. La filosofia heideggeriana è per lo più una filosofia politica, poiché tende sempre a impegnre l’uomo in relazione alla comunità, al ricordo e alle radici. Cè infatti chi ha giudicato il pensatore anche come un teorico della Führung e della Volksgemeinschaft. Lui stesso come nuovo Platone, inserito in un disegno di rivoluzione culturale: la scienza come bios e la società come comunità organica. Su tutto, la riacquisizione della Grecia arcaica, della sua mistica dell’autoctonia e della sua padronanza sulla techne creativa.

Non a caso, Heidegger difese l’idea naturale della pluralità dei lignaggi, nel senso che ogni popolo è contrassegnato dallo spirito, dalla storia e dalla natura. Secondo Lacoue-Labarthe, addirittura, tutto il pensiero di Heidegger esprime una grande coerenza ideale su questi temi, in un intreccio armonico di filosofia e di politica che renderebbe il suo coinvolgimento con il Nazionalsocialismo, da Heidegger per altro mai sottoposto ad autocritica, del tutto ovvio. Il nocciolo della riflessione lo possiamo individuare nella categoria essere-nel-mondo, usata da Heidegger per realizzare il superamento del soggettivismo liberale. Come ha scritto Losurdo, è qui che l’ideologia del radicamento di Heidegger – espressa sin da Essere e tempo – diventa un valore politico, cioè il legame popolare dato una volta per sempre dalla storia e dalla natura. È un fatto che, molto probabilmente, Heidegger intravide nel Nazionalsocialismo ciò che cercava. Tra l’altro, la concezione che la scienza, come accadeva nell’antica Grecia, non era un semplice bene culturale, ma «la più intima forza determinante dell’intero esserci popolare-statale». Come dire: rinascita del mito comunitario e protezione della famiglia contadina nel suo spazio ancestrale, ma, al tempo stesso, finanziamento dei programmi missilistici.

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Tratto da Linea del 26 settembre 2008.


mercoledì 11 luglio 2012

LA "MIGRAZIONE DORICA"




Il nucleo dei Veda doveva già esistere, almeno come tradizione orale, quando il processo d’indoeuropeizzazione dell’Europa tocca il suo apice, quello che prelude immediatamente al sorgere del mondo greco-romano.

È la cosidetta «migrazione dorica» ossia quel movimento di popoli del Nord – caratterizzati dai loro Urnenfelder – che spinge in Grecia i Dori, avvia le migrazioni italiche nella penisola appenninica e causa la irradiazione dei Celti in tutta l’Europa dell’Ovest.


Incisioni rupestri di Tanum, Bohuslän, Svezia.
La presenza dell’incinerazione in questa seconda e risolutiva ondata indoeuropea ci introduce a un nuovo avvenimento spirituale che si colloca sempre nel solco del simbolismo solare e della «negazione della Madre».

L’incinerazione ha antiche radici nell’Europa-Centrale, ma solo alla fine dell’età del bronzo raggiunge quella espansione e quella compattezza che ci metton di fronte a una nuova visione della vita. È un rituale tipicamente uranico, orientato verso il cielo e la luce. La purificazione dello spirito dal peso della terra e la sua liberazione in pura sostanza di fuoco trovano un’eco precisa in una nuova fioritura del simbolismo celeste.

Il cerchio solare, la croce celtica, il disco puntato, la ruota raggiata traversano tutta l’Europa tra quei due grandi centri di riferimento che sono le incisioni rupestri del Bohuslän e quelle della Valcamonica. Allo stesso modo, dalla Svezia all’Italia – partendo da un focolare mitteleuropeo – fa la sua comparsa il motivo del cigno astrale, destinato a perpetuarsi fino alla leggenda di Lohengrin e del Graal. Il motivo dei due cigni affiancati che tirano la nave del sole, le protome di cigno stilizzate a 5, sono una delle più caratteristiche manifestazioni della cultura dei campi d’urne e ne accompagnano l’espansione giù giù, fin nel Lazio.

Il carro solare – questa volta trainato da un cavallo – è emerso in una palude della Danimarca a confermare la veridicità del mito ellenico dell’Apollo dimorante nel paese degli Iperborei.

Significativamente, nelle incisioni rupestri della Svezia e della Valcamonica, accanto al moltiplicarsi degli standars solari e di divinità maschili, vi è una rimarchevole assenza delle figurine femminili:

«Manca la fanciulla, così come la madre e la partoriente; manca l’immagine del piccolo animale che sugge il latte, immortalato sia a Creta che in Egitto in indimenticabili figurazioni. È un’anima radicalmente diversa quella che si esprime in queste incisioni rupestri nordiche e italiche. All’antico mondo mediterraneo, col suo naturalismo femminile, si contrappone una cultura tipicamente virile. Essa si apre una via verso il Sud» (Altheim, Italien und Rom, Amsterdam und Leipzig 1940, S. 25-26).

Un’assenza che ha un preciso valore indicativo circa il contenuto spirituale della «migrazione dorica». È un contenuto che verrà presto alla luce sia nel pantheon olimpico che nello stile di vita asciutto e severo del doricismo e della romanità.

Intorno al 950 circa, la grande migrazione è finita: nel Peloponneso ci sono ormai i Dori e sui Colli Albani i Latini. L’ethnos italico ed ellenico, saturo di elementi nordici, si prepara alla grande stagione della civiltà classica. Dalla Grecia all’Italia si diffonde una nuova costellazione simbolica la cui stella polare è la svastica – ripetuta centinaia di volte sia sui vasi del cosidetto « periodo geometrico », sia sulle urne a capanna del Lazio.

La preistoria è finita. Sull’Ellade albeggia l’aurora omerica. Significativamente, quando il primo popolo indoeuropeo d’Europa incomincia a parlare, il suo messaggio è quello della religione olimpica.

Di duemilacinquecento anni di preistoria religiosa europea, una parola ci è rimasta: *dyeus.

È il nome della Divinità: Juppiter – da Dius-pater (gen. Iovis, dat. Iovii) tra i Latini; Zeus (gen. Diòs) tra gli Elleni; Dyaus in India; Tyr o Ziu nel mondo germanico. È il nome del dio supremo e – al tempo stesso – quello del cielo divino in tutta la sua luce e tutto il suo splendore.

È questa una importante scelta spirituale: gli Indoeuropei, la razza nordica, gli europei sono il popolo di *dyeus, il popolo della luce. Il popolo destinato a portare il lògos, la legge, l’ordine, la misura. Il popolo che ha divinificato il Cielo di fronte alla Terra, il Giorno di fronte alla Notte, la razza olimpica per eccellenza.

È una scelta destinata a segnare un orientamento di millenni: l’ordine, nel mondo, è opera dell’uomo bianco.

Ma il Giorno, *dyeus, è – al tempo stesso – il Padre. Juppiter, Zeus patér, Dyaus pitàr sono termini che si pronunciano l’uno nell’altro.

L’ordine della luce è un ordine maschile. Non l’ordine della Madre – confondente tutto e tutti in una pacifica promiscuità, e che sta al di qua della civiltà come noi la concepiamo:

«Dal principio della maternità generatrice scaturisce il senso della universale fratellanza di tutti gli esseri, senso che declina e non trova più risuonanze con l’avvento del principio della paternità. La famiglia incentrata nel patriarcato è conchiusa come un organismo individuo, quella matriarcale conserva invece quel carattere tipicamente universalistico che si ritrova nei primordi. Da esso procede quel principio di universale eguaglianza e libertà, che noi spesso ritroviamo come tratto fondamentale dei popoli ginecocratici, insieme alla filoxenìa (simpatia per gli stranieri) e ad una decisa insofferenza per ogni specie di limiti e restrinzioni; infine, non diversa origine ha l’esaltazione del sentimento d’una generale parentela e di una simpatia, synpàtheia – che non conosce limiti… » (Bachofen, Le madri e la virilità olimpica, Milano 1949, pg. 34-35).

Il genio spirituale indoeuropeo – quale si manifesta fin nei primordi, sta appunto nel rifiuto di questa fratellanza promiscua del regno della Madre. Contro la promiscuità stanno la Famiglia e lo Stato, contro la fratellanza universale e bastarda la stirpe e la razza.

Contro il livellamento sta l’Ordine – come principio di differenziazione luminoso. L’Ordine solare del giorno, l’ordine di *dyeus, quale si trova simboleggiato nella svastica, primordiale simbolo della luce .

Adriano Romualdi