domenica 29 luglio 2012

PIERRE DRIEU LA ROCHELLE



“Noi siamo uomini d’oggi. Siamo soli. Non abbiamo più dei. Non abbiamo più idee. Non crediamo né a Gesù Cristo né a Marx. Bisogna che immediatamente, subito, in questo stesso attimo, costruiamo la torre della nostra disperazione e del nostro orgoglio. Con il sudore ed il sangue di tutte le classi dobbiamo costruire una patria come non si è mai vista; compatta come un blocco d’acciaio, come una calamita. Tutta la limatura d’Europa vi si aggregherà, per amore o per forza. E allora davanti al blocco della nostra Europa, l’Asia, l’America e l’Africa diventeranno polvere“.

«Morirò con gioia selvaggia all’idea che Stalin sarà il padrone del mondo. Finalmente un padrone. È bene che gli uomini abbiano un padrone il quale faccia loro sentire l’onnipresenza feroce di Dio, l’inesorabile voce della legge» (27 dicembre 1942)

«Quello che mi piace nel trionfo del comunismo è non solo la scomparsa di una borghesia detestabile e ottusa, ma anche l’inquadramento del popolo e la rinascita dell’antico dispotismo sacro, dell’aristocrazia assoluta, della teocrazia definitiva. Scompariranno così tutte le assurdità del Rinascimento, della riforma, della rivoluzione americana e francese. Si torna all’Asia; ne abbiamo bisogno» (25 aprile 1943)

«In mancanza del fascismo (…) solo il comunismo può mettere veramente l’Uomo con le spalle al muro costringendolo ad ammettere di nuovo, come non avveniva più dal Medioevo, che ha dei Padroni. Stalin, più che Hitler, è l’espressione della legge suprema» (2 settembre 1943)

Siamo tutti degni uno dell’altro, tutti gli stessi azionisti della società industriale moderna del capitale di miliardi di carta e di migliaia di ore di lavoro fastidioso e vano. Che ciò sia a Kharkov, o a Patin, a Shanghai, o a Philadelphia, non è poi la stessa cosa? Non esistono altro che i moderni, gente piena di affari, gente del plusvalore o del salario, che non pensa che a questo e non discute che di questo.

Non barate, come non baro io. Condannatemi a morte. Non sono soltanto un francese, ma un europeo. Anche voi lo siete, scientemente, o incoscientemente. Ma abbiamo giocato e io ho perduto. Ergo, la morte.

Il suicidio è una viltà, ma una viltà di cui non tutti hanno il coraggio.

Da ragazzo ho giurato a me stesso di restare fedele alla mia giovinezza: un giorno ho cercato di mantenere la parola.

Non ho creduto affatto, dandomi la morte, di contraddire all’idea dell’immortalità che ho sempre sentita viva dentro di me. Era proprio perchè credevo nell’immortalità che mi precipitavo così vivamente verso la morte. Io professavo che ciò che si chiama morte non è che una soglia al di là della quale la vita prosegue, o perlomeno qualcosa di ciò che sia chiama vita, qualcosa che non ne è l’essenza. Credevo, del resto, che possa continuare soltanto ciò che è cominciato; se l’anima continua, è perchè non ha mai cessato di esistere… Certo, rigettavo l’idea volgare della sopravvivenza di un’ anima individuale. Non pensavo certamente di perdere, o di salvare la mia anima personale mettendo fine ai miei giorni.

L’uomo esiste soltanto nel combattimento… Vive soltanto se rischia la morte.

Oltre alla solitudine, l’altra mia grande ricchezza è stata la malinconia. La gente non mi ha capito e mi ha creduto uggioso, annoiato. Io stesso, a volte, non ho capito. Malinconia infinita e deliziosa, fatta del rimpianto di ciò che non avevo perennemente lenito dal piacere per ciò che avevo. Malinconia di essere poco attivo, statico, che si risolveva nel piacere di essere lento e quasi immobile; malinconia di non essere sposato che sfumava, dopo ogni sbandata, nel piacere di non esserlo più; malinconia di vivere in un paese in decadenza che trapassava nel piacere di gustare tanti residui della laidezza del tempo; malinconia di non essere pittore, o poeta, che si risolveva nel piacere di fare grandi scorpacciate di storia; malinconia di non essere un politico, che diventava piacere di scrivere qualche pagina libera. Rimpiango solo di non essermi accettato e riconosciuto per quello che ero, di aver fatto il processo alle mie intenzioni. Tutto quel senso di inferiorità, di persecuzione e di colpa mi ha tormentato e svilito agli occhi miei e altrui. Ma in fondo non posso veramente rammaricarmene, perché senza quell’elemento di inquietudine e di amarezza sarei stato esattamente ciò che potevo apparire ad alcuni: un abietto gaudente senza inferiorità. Ho anche sfruttato il vantaggio rappresentato, per il sibarita, dall’essere dolcemente mistico. Non mi sono privato della compagnia degli dei. E ho visto Dio attraverso le cose. E talvolta, nonostante tutto, sono stato visitato dalla compassione e dall’angoscia.

Io, scrivo sotto l’ombra d’un ponte una frase anonima che nessuno leggerà mai. Ma è una frase detta per sempre. Come per sempre questa piccola maschera di pietra è scolpita in cima alla cattedrale, dove in quattro secoli è stata guardata distrattamente due volte soltanto dagli operai addetti alle riparazioni. Più i dettagli dei miei giorni, delle mie ore, dei miei minuti sono infimi e più mi ci aggrappo; più mi dedico all’effimero e più l’effimero mi distacca… No, mi lega all’eternità che cade nel mio petto goccia a goccia… No, è una goccia sospesa per sempre e che non cade mai.


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