venerdì 25 maggio 2012

Un eurasiatista a cavallo: Ungern Khan



In un discorso tenuto ad Amburgo il 28 aprile 1924, Oswald Spengler rievocò la figura del barone von Ungern-Sternberg, che quattro anni prima aveva allestito un esercito “con il quale in breve tempo avrebbe avuto saldamente in pugno l’Asia centrale. Quest’uomo – disse Spengler – aveva legato incondizionatamente a sé la popolazione di vaste regioni, e se avesse voluto prendere l’iniziativa e la sua eliminazione non fosse riuscita ai bolscevichi, non ci si può figurare come risulterebbe già oggi l’immagine dell’Asia” (1). Il barone Ungern-Sternberg era già passato alla storia. E alla leggenda.

Dal noto libro di Ferdinand Ossendowski Bestie, uomini e dèi (2) alle biografie romanzate di Vladimir Pozner (3) e Berndt Krauthoff (4), che attrassero rispettivamente l’attenzione di René Guénon (5) e di Julius Evola (6); dal film sovietico Ego zovut Suche Batur, diretto nel 1942 da Aleksandr Zarchi e Josif Chejfiz (con Nikolaj Cerkasov nei panni dell’eroe negativo Ungern) ai fumetti di Hugo Pratt (7) della serie “Corto Maltese”; dai romanzi di Jean Mabire (8) e di Renato Monteleone (9) fino alla pittura dell’artista siberiano Evgenij Vigiljanskij, la leggenda del “barone sanguinario” ha continuato ad esercitare il suo fascino. Nella Russia di oggi, dove Leonid Juzefovich (10) ha pubblicato la più recente biografia del Barone, il mito di Ungern è particolarmente vivo presso le correnti eurasiatiste e neoimperiali, che guardano a questo personaggio come ad un loro precursore (11).

Secondo la Grande Enciclopedia Sovietica, Roman Fedorovic Ungern von Sternberg nacque il 10 (22) gennaio 1886 nell’isola di Dago (oggi Hiiumaa Saar, in Estonia) e morì il 15 settembre 1921 a Novonikolaevsk (oggi Novosibirsk). Alcune fonti “occidentali”, invece, lo fanno nascere il 29 dicembre 1885 in Austria, a Graz; per quanto riguarda la morte, oscillano tra il 17 settembre e il 12 dicembre del 1921 e propongono ora Novonikolaevsk ora Verkhne-Udinsk (Ulan Ude, tra la riva sudorientale del Baikal e il confine mongolo).

In ogni caso, la famiglia del barone Roman Fedorovic (imparentata tra l’altro con quella del conte Hermann Keyserling) apparteneva alla nobiltà baltica di lingua tedesca ed era presente sia in Estonia sia in Lettonia: nel 1929 un esponente della famiglia rievocava le sue vicissitudini a Riga, nel periodo dell’invasione bolscevica (12). Il Genealogisches Handbuch des Adels si occupa estesamente degli Ungern-Sternberg (13), individuandone il capostipite in un Johannes de Ungaria (“Her Hanss v. Ungernn”), la cui esistenza è attestata in un documento del 1232. Sul dato dell’origine magiara si innestarono alcune leggende: una ricollegava gli Ungern agli Unni, un’altra li faceva discendere da un nipote di Gengis Khan che nel XIII secolo aveva cinto d’assedio Buda.

E appunto dal fondatore dell’impero mongolo Roman Fedorovic avrebbe ereditato un anello di rubino con la svastica, mentre, stando ad un’altra versione, glielo avrebbe consegnato il Qutuqtu, il Buddha Vivente di Urga, terza autorità nella gerarchia lamaista dopo il Dalai Lama di Lhasa e il Panc’en Lama di Tashi-lhumpo.

Compiuti gli studi al Ginnasio di Reval, il Barone frequentò la scuola dei cadetti di San Pietroburgo; nel 1909 trascorse un breve periodo con un reggimento di cosacchi di stanza a Cita, in Transbaikalia, poi si diresse verso la Mongolia. Qui, grazie all’affiliazione buddhista che gli era stata trasmessa dall’avo paterno, Roman Fedorovic poté entrare in rapporto col Buddha Vivente. Nel 1911, quando i Cinesi vengono cacciati dalla Mongolia e il Buddha Vivente diventa il sovrano del paese, il Barone riceve un posto di comando nella cavalleria mongola. In quel periodo, un oracolo sciamanico gli rivela che in lui si dovrà manifestare una divina potenza guerriera.

Nel 1912 Roman Fedorovic è in Europa. Allo scoppio del conflitto, abbandonando Parigi per accorrere sotto i vessilli dello Zar, il Barone conduce con sé una fanciulla di nome Danielle, la quale perirà in un naufragio sul Baltico. Nel 1915 combatte in Galizia e in Volinia, riportando quattro ferite e guadagnando due altissime onorificenze: la Croce di San Giorgio e la Spada d’Onore. Nel 1916 è sul fronte armeno, dove ritrova l’Atamano Semenov, che aveva conosciuto in Mongolia. Nell’agosto del 1917, dopo essere andato a Reval per organizzarvi alcuni distaccamenti di Buriati da impiegare contro i bolscevichi, Ungern raggiunge Semenov in Transbaikalia; qui diventa il capo di Stato Maggiore del primo esercito “bianco” e organizza una Divisione Asiatica di Cavalleria (Asiatskaja konaja divizija) in cui confluiscono mongoli, buriati, russi, cosacchi, caucasici, perfino tibetani, coreani, giapponesi e cinesi. La Divisione Asiatica di Cavalleria opera per tutto il 1918 nei territori orientali della Siberia, tra il Baikal e la Manciuria.

Dopo l’evacuazione giapponese della Transbaikalia, la successiva occupazione cinese della Mongolia e l’instaurazione di un soviet “mongolo” sotto la direzione di un ebreo di nome Scheinemann e di un pope rinnegato di nome Parnikov, il generale Ungern si dirige verso la Mongolia alla testa dei suoi cavalieri. Il 3 febbraio 1921 investe Urga, costringendo alla fuga la guarnigione cinese, facendo a pezzi un rinforzo nemico di seimila uomini e spazzando via il soviet locale. Il Buddha Vivente Jebtsu Damba, liberato dalla prigionia e reintegrato nel suo regno, conferisce a Ungern, che d’ora in poi sarà Ungern Khan, il titolo di “Primo Signore della Mongolia e Rappresentante del Sacro Monarca”. Il terzo gerarca del Buddhismo lamaista riconosce in Ungern una cratofania procedente dal suo medesimo principio spirituale.

Ungern aveva dichiarato fin dal 25 febbraio 1919, alla Conferenza Panmongola di Cita, la propria intenzione di restaurare la teocrazia lamaista, creando una Grande Mongolia dal Baikal al Tibet e facendone la base di partenza per una grandiosa cavalcata verso occidente, sulle orme di Gengis Khan. Il vero scopo di Ungern Khan non era infatti una pura e semplice distruzione del potere sovietico, ma una lotta generale contro il mondo nato dalla Rivoluzione Francese, fino all’instaurazione di un ordine teocratico e tradizionale in tutta l’Eurasia. Ciò spiega da un lato la scarsa simpatia di cui Ungern godette presso gli ambienti “bianchi”, dall’altro, il vivo interesse che il suo progetto suscitò anche al di fuori delle cerchie lamaiste, in particolare presso gli ambienti musulmani dell’Asia centrale.

Rivestendo la tunica gialla sotto il mantello di ufficiale imperiale, alla testa di un’armata a cavallo che innalza come propria insegna il vessillo con lo zoccolo e lo svastica, il 20 maggio del 1921 Ungern Khan lascia Urga e penetra in territorio sovietico presso Troitskosavsk (Kiakhta), travolgendo le difese bolsceviche. Quindi impartisce l’ordine apparentemente insensato di eseguire una conversione verso occidente e poi verso sud, in direzione dell’Altai e della Zungaria. La sua intenzione, secondo quanto lui stesso dichiara al suo unico amico, il generale Boris Rjesusin, è di attraversare il Hsin Kiang per raggiungere la fortezza spirituale tibetana. “Egli – scrive Pio Filippani Ronconi – mosse solitario verso una direzione che non aveva più rapporto con la realtà geografica del luogo e militare della situazione, nel postremo tentativo, non di salvare la vita, bensì di ricollegarsi, prima di morire, con il proprio principio metafisico: il Re del Mondo” (14).

Il 21 agosto il predone calmucco Ja lama, dopo avere ospitato Ungern nella propria yurta, lo consegna ai “partigiani dello Jenisej” di P.E. Shcetinkin. Il generale Blücher, comandante dell’esercito rivoluzionario del popolo della repubblica dell’Estremo Oriente e futuro Maresciallo dell’URSS, cerca invano di convincerlo ad entrare nell’esercito sovietico. Il 15 settembre Ungern viene processato a Novonikolaevsk dal tribunale straordinario della Siberia. Riconosciuto colpevole di aver voluto creare uno Stato asiatico vassallo dell’Impero nipponico e di aver preparato il rovesciamento del potere sovietico per restaurare la monarchia dei Romanov, è condannato a morte per fucilazione.

L’anello con la svastica sarebbe entrato in possesso di Blücher. Si dice che, dopo la fucilazione di quest’ultimo, avvenuta nel 1936, esso sia passato nelle mani del Maresciallo Zhukov.

Note

1) O. Spengler, Forme della politica mondiale, Ar, Padova 1994, p. 63.
2) F. Ossendowski, Bêtes, Hommes et Dieux, Plon, Paris 1924.
3) V. Pozner, Le mors aux dents, Denoël, Paris 1937.
4) B. Krauthoff, Ich befehle. Kampf und Tragödie des Barons Ungern-Sternberg, Carl Schünemann Verlag, Bremen 1938. Questo libro, come pure quello di Pozner, rielabora i dati forniti da un testimone: Essaul Makejev, Bog voiny, Baron Ungern (Il dio della guerra, il Barone Ungern), Shangai 1926.
5) R. Guénon, Rec. in Le Théosophisme, Éditions Traditionnelles, Paris 1978, pp. 411-414.
6) J. Evola, Rec. in Esplorazioni e disamine. Gli scritti di “Bibliografia Fascista”, vol. I, Edizioni all’insegna del Veltro, Parma 1994, pp. 249-253.
7) Il Barone Ungern è anche uno dei personaggi principali del romanzo di Hugo Pratt Corte Maltese. Corte Sconta detta Arcana, Einaudi, Torino 1996.
8) J. Mabire, Ungern, le dieu de la guerre, Art et Histoire d’Europe, Paris 1987.
9) R. Monteleone, Il quarantesimo orso, Gribaudo, Torino 1995.
10) L. Juzefovich, Samoderzhec pustyni (L’autocrate del deserto), Ellis luck, Moskva 1993.
11) Ungern Khan: un “eurasista in sella”? Questo il titolo che Aldo Ferrari ha dato a un paragrafo del suo studio sulle correnti eurasiatiste russe, che si conclude riconoscendo come il barone Ungern-Sternberg “sia divenuto nella cultura russa post-sovietica una sorta di personaggio totemico della rinascita eurasista, perlomeno della sua tendenza radicale ed esoterica” (A. Ferrari, La foresta e la steppa. Il mito dell’Eurasia nella cultura russa, Scheiwiller, Milano 2003, p. 240). Aldo Ferrari cita poi queste parole dell’esponente più noto dell’eurasiatismo russo odierno, Aleksandr Dugin: “In Ungern-khan si unirono nuovamente le forze segrete che avevano animato le forme supreme della sacralità continentale: gli echi dell’alleanza tra Goti e Unni, la fedeltà russa alla Tradizione Orientale, il significato geopolitica della Mongolia, patria di Cingischan” (A. Dugin, Misterii Evrazii, Moskva 1996, p. 96). A paragone di questa immagine di Ungern Khan, appare alquanto infelice, perché riduttivo e banale, il titolo sotto il quale sono stati recentemente raccolti in Ungheria alcuni scritti di autori vari concernenti il personaggio in questione: Az antikommunista. Roman Ungern-Sternberg barorol. Valogatott tanulmanyok [L’anticomunista. Sul barone Roman Ungern-Sternberg. Studi scelti], Nemzetek Europaja Kiado, Budapest 2002.
12) A. v. Ungern-Sternberg, Unsere Erlebnisse in der Zeit der Bolschewiken Herrschaft in Riga vom 3. Januar bis zum 22. Mai 1919, Kommissions Verlag von Ernst Plates, Riga 1929.
13) Genealogisches Handbuch des Adels, bearbeitet unter Aufsicht des Ausschusses fur adelsrechtliche Fragen der deutschen Adelsverbande in Gemeinschaft mit dem Deutschen Adelsarchiv, Band 4 der Gesamtreihe, Verlag von C.A. Starke, Glucksburg/Ostsee 1952, pp. 457-479. Nel 1884 apparve in Germania una pubblicazione specificamente dedicata agli Ungern-Sternberg (Nachrichten uber des Geschlecht Ungern-Sternberg), che riproduceva stemmi, insegne e firme autografe dei vari membri della famiglia.
14) P. Filippani Ronconi, Un tempo, un destino, “Vie della Tradizione”, n. 82, aprile-giugno 1991, p. 59.


venerdì 18 maggio 2012

La più antica Roma





I monti Albani costituivano la roccaforte naturale dell’antico Lazio, che aveva il suo centro nel monte Cavo. Roma era situata al margine settentrionale, ma sia la città che la zona circostante assunsero sin dalle origini una posizione di rilievo. Entrambe affacciavano sul Tevere, fiume che separava il territorio laziale da quello etrusco. Il Gianicolo costituiva la testa di ponte. Dopo pochi chilometri il fiume raggiungeva il mare, mentre risalendo il corso d’acqua sia del Tevere che dell’Aniene si raggiungevano Curi e Tibur, località di origine dei Sabini. Questa posizione particolare di Roma ebbe notevole importanza per la sua storia.

Secondo la tradizione romana, all’epoca di Romolo i Romani si fusero con i Sabini di Tito Tazio creando un’unica popolazione. La ricerca archeologica ha confermato questo dato. E’ attestata infatti la presenza di un insediamento latino sul Palatino differenziato dagli insediamenti sabini sull’Esquilino, Viminale e Quirinale. I Latini cremavano i loro morti e ne riponevano le ceneri in urne a forma di vaso o di capanna; i Sabini invece collocavano i corpi intatti in bare ricavate da alberi oppure sotto lastre di pietra. Due civiltà convivevano pertanto sul suolo di Roma: la civiltà villanoviana dell’Italia centrale e quella adriatica. Quest’ultima mostra di avere legami con le civiltà del ferro danubiane e balcaniche, con propaggini ad Oriente in Asia Minore. Portatori della civiltà adriatica in tempi storici furono principalmente gli Illiri. Le popolazioni osco-umbre nella penisola italica furono spinte appunto da genti il illiriche verso nuovi insediamenti. Mutuarono dai loro vicini illiri la pratica di seppellire i morti in tombe a fossa, tradizione che mantennero anche sul territorio romano. Alla mescolanza delle popolazioni corrisponde il quadro linguistico. Il latino dell’urbe vede la sostituzione, all’interno della parola, della b e della d con f, di qu e g con p e b (scrofa, infernus, lupus, bos). Caratteristiche queste che appartengono ai gruppi osco-umbri.

La tradizione colloca la fondazione di Roma nell’VIII secolo. In effetti nessun ritrovamento risale ad epoca più antica. Alla fine del secolo successivo si ha l’evento decisivo: la fusione di insediamenti latini e sabini, con la coesistenza di sepolture a cremazione e a inumazione poste all’interno del limite urbano. Come testimonianza di ciò abbiamo la festa del Settimonzio, che derivò dai sette montes della riunita comunità urbana, e in questa stessa forma, segno dell’attaccamento romano alla tradizione, la festa fu celebrata sino in epoca storica. A ciò si aggiunge l’ubicazione della necropoli al margine di quello che sarebbe stato il Foro. Essa mostra nel suo strato superiore i pozzi rotondi dei cremati, assieme a tombe costituite da alberi, o da fosse coperte da lastre di pietra, degli inumati. Questo cimitero, originariamente appartenente agli incineranti del Palatino, accolse successivamente gli inumanti dei Monti. Gli abitanti del Palatino non poterono cedere la loro antica zona di sepoltura ai vicini Sabini senza un chiaro atto giuridico.

I diversi insediamenti romani sorsero poi in base a un trattato, in base al quale incominciarono a fondersi in una comunità.

Contemporaneamente si manifestano a Roma i primi influssi etruschi. Una tomba di guerriero dell’Esquilino ha una certa similarità con le tombe dei principi etruschi del VII secolo. Nel Foro, non  lontano dal tempio di Saturno, su un vaso a bucchero si è trovata una iscrizione etrusca arcaica. Le colline della più antica Roma recavano nomi etruschi o almeno composti alla maniera etrusca, e lo stesso vale per il nome Roma e per quello del mitico fondatore Romolo.

Non si può infine tralasciare la presenza a Roma di oggetti greci d’importazione. Vasellame proto-corinzio è stato trovato nella necropoli dell’Esquilino, nello strato più recente degli scavi del Foro ed in una fontana vicina al tempio di Vesta. Proprio in questi antichi strati della città era quindi presente l’elemento greco. Quel che vale per i reperti archeologici vale anche per la religione, come si evidenzia attraverso il più antico calendario festivo. A Roma, come fra gli Etruschi ed un po’ in tutta Italia, l’elemento greco costituì un elemento originale essenziale nella formazione di quelle culture.

Il calendario festivo romano è contenuto in una serie di redazioni epigrafiche, la più antica delle quali risale ad epoca pre-cesarea. La maggior parte di questi calendari viene collocata nel periodo corrente tra la fondazione del principato e l’impero di Claudio. Un testo base scritto in grandi caratteri capitali di colore nero si distacca da aggiunte e note successive in caratteri più piccoli e rossi. Il calendario nasce nel VI secolo e ci riporta l’elenco delle feste e degli eventi cultuali della Roma arcaica. La sua redazione coincide con l’installazione dell’ultimo insediamento sabino sul suolo romano, quello del Quirinale, nell’ambito della nuova comunità.

L’unione dei diversi insediamenti sul suolo romano ebbe inizio con la fusione fra la comunità palatina e quella sabina dell’Esquilino. Come prima accennato, la festa del Septimontium rappresentò il corrispettivo cultuale di questa unione. Veniva celebrata l’11 dicembre, ed in tale occasione si sacrificava ai sette montes. Ossia: Palatium, Cermalus, le due cime del Palatino, la Velia, posta subito a nord dei primi; Fugutal, Cispius e Oppius, cime dell’Esquilino; infine il Caelius a sud. A questi sette colli si aggiunge, in base alle fonti, un altro nome: la Subura, valle situata all’interno del Septimontium, tra le Carinae ed il Fugutal, che però in quanto valle non fu contata tra i montes.

Il più antico calendario mostra lo sviluppo determinato dalla fusione di questi insediamenti. Tra gli Dèi che vengono nominati in questo sistema festivo, spicca Quirino. Ciò significa che la collina che sin dall’antichità era sua sede e che pertanto prendeva il nome del dio – il collis Quirinalis – apparteneva allora all’ambito urbano. Anche Sol Indiges aveva il suo luogo di culto sulla stessa collina. La gens Aurelia, che dedicava un proprio culto al dio, era di origine sabina; il che conferma che l’insediamento del Quirinale e quello dell’Esquilino appartenevano ai Sabini. Altra prova è fornita dal nome degli Aureli, che deriva da ausel (Auselii), denominazione sabina del sole.

Il più antico calendario festivo corrisponde pertanto allo stadio dello sviluppo urbano, allorché il Quirinale si era aggiunto all’originario Septimontium. Il Campidoglio si trovava ancora al di fuori dei confini della città, per cui tale calendario ignora la fondazione del tempio capitolino. L’inserimento del Campidoglio nella cerchia urbana avvenne in tempo successivo, allorché il ruscello del Foro come la pianura acquitrinosa che separavano il Palatino e la Velia dal colle capitolino, furono prosciugati. La costruzione della cloaca massima, che permise tale prosciugamento, fu realizzata verso la fine della monarchia.

C’è un precedente rispetto alla collina del Campidoglio, il Capitolium vetus, ugualmente consacrato alla triade Iuppiter, Iuno e Minerva. Anche il più antico Campidoglio non è inserito nel calendario festivo arcaico, per cui è posteriore alla sua redazione. Non si trovava però sul colle capitolino, ma sul Quirinale. Si deduce pertanto che l’istituzione della triade avvenne in un’epoca in cui soltanto il Quirinale, ma non ancora il Campidoglio, era inserito nel limite urbano.

Prima dell’erezione del tempio capitolino e dell’inserimento del colle e del Foro sottostante nel confine urbano, questo comprendeva il solo Septimonzio ed il Quirinale. Questa è l’immagine della città che appare nel più antico calendario. Con ciò si ha la possibilità di una datazione. Fin quando il Foro era paludoso, le sue rive venivano utilizzate soltanto come area per una necropoli. Tale situazione durò, in base ai reperti ivi ritrovati, fino ai primi decenni del VI secolo. Solo successivamente il Foro potè essere utilizzato come luogo di riunioni, per attività pubbliche e come luogo di mercato. Il rinnovamento avvenne quindi verso la fine del secolo, datazione confermata dai resti che testimoniano l’inizio della costruzione del tempio sul Campidoglio sotto Tarquinio Prisco, e quella della cloaca massima sotto Tarquinio il Superbo. Per cui l’ampliamento significativo della città è da collocarsi tra la metà e la fine del VI secolo. Il calendario rispecchia la situazione urbana precedente a tale sviluppo.

Ancora più agevole diviene la datazione delle fasi di sviluppo storico dell’urbe. Se il Capitolium vetus sul Quirinale presuppone la stessa realtà urbana individuata nel calendario, ma non è menzionato dal calendario stesso, vuol dire che la fondazione del tempio si colloca alla fine del periodo in cui il Quirinale fu inserito nella  cerchia  urbana,  mentre  il  calendario  si  colloca  verso l’inizio di questa fase. Risulta allora logico dedurre che il calendario presentasse un sistema festivo fondamentalmente per la comunità dopo l’unione del Septimonzio e del Quirinale.

Dovette essere una circostanza particolare a produrre un simile sistema festivo e cultuale dal carattere globale, circostanza da ricercarsi nell’inserimento dell’ultimo insediamento ancora indipendente nell’ambito urbano. In quel momento si dovettero affermare quelle norme che d’allora in poi sarebbero valse per la nuova comunità. Non sorprende che alla stessa epoca risalga la formazione di un sistema politico stabile. Anche la creazione delle curie avvenne in quegli anni in cui le varie comunità si unirono sul suolo romano. Con ciò si delinea da un punto di vista cultuale e politico la struttura della Roma arcaica.

In realtà il calendario si presenta come un sistema ordinato, di cui non si può misconoscere il riferimento ad una comunità di una certa importanza. La sequenza  e la ripartizione delle feste, ordinate in gruppi, mostra di tener conto di una tale comunità.

Il raggruppamento delle festività si evidenzia soprattutto a marzo ed ottobre. Il mese di marzo prende la sua denominazione dal dio Marte, e nel suo corso vengono celebrate le feste del dio, a partire esattamente dalla fine di febbraio (Equirra, 27 febbraio) e durante il mese successivo. I giorni dedicati a Marte sono infatti il 1° ed il 14 (Equirra), il 17 e 19 (Quinquatrus), il 23 (Tubilustrium). A queste celebrazioni corrispondono nel mese di ottobre, l’Equus October (15 ottobre), in cui viene sacrificato il cavallo di destra del carro vincitore della corsa, e l’Armilustrium (giorno 19): esattamente la relazione si sviluppa fra l’Equus October e le Equirra, tra l’Armilustrium e il Quinquatrus. Esposizione delle armi e dei corni di guerra, come la corsa celebrativa delle bighe, coincidono con la partenza dell’esercito per la guerra in primavera e col suo ritorno in autunno. L’originaria propensione alla guerra della comunità trovava espressione nel culto. Se i Fontinalia venivano subito prima del sacrificio del “cavallo d’ottobre”, ciò vuol dire che doveva esserci un nesso tra cavallo e fonte.

Strettamente connessi sono febbraio e maggio, entrambi consacrati ai morti. In conformità di ciò maggio prende il suo nome dalla divinità tellurica Maia, la “grande”, appellativo che si ripropone anche nel greco Megale e nell’antico indiano mahi. La tradizione romana collega febbraio con il dio dei morti Februus, omologato con Dispater. In questo mese si celebrano i Parentalia per la durata di nove giorni; il solo giorno conclusivo della celebrazione (21) veniva indicato come feriae publicae ed era quindi l’unico ad essere contrassegnato nel calendario. Nel mezzo dei Parentalia cadevano i Lupercalia, festa di Fauno, in cui il popolo veniva purificato di tutti i mali e i pericoli da cui era minacciato durante questo periodo dei morti. A maggio invece si celebravano i Lemuria (9,11, e 13) e l’Agonium di Vedove (21), entrambe celebrazioni dei morti. Anche il Tubilustrium di Vulcano, affine cultuale di Maia, si colloca per tale affinità e per la tuba nell’ambito dei culti dei morti (la tromba svolge un ruolo significativo nel culto).

A luglio cadono i Neptunalia (23) nel mezzo di un ciclo festivo dal carattere omogeneo comprendente anche i Lucaria (19 e 21) ed i Furrinalia (25). Negli stessi giorni d’agosto si colloca un altro gruppo di celebrazioni che si raggruppano attorno ai Volcanalia del 23. Accanto al giorno dedicato al dio della terra e del focolare, abbiamo la festa della raccolta dell’uva (Vinalia, il 19) e la celebrazione del Dio Conso con cui si pone in relazione Ops (21 e 25): sono tutte celebrazioni aventi a che fare col raccolto e con i frutti della terra.

Le feste di aprile fanno ugualmente riferimento alla vegetazione, ma sono legate ai diversi aspetti sotto i quali si presenta la madre terra (Fordicidia, 15; Cerealia, 19). I Vinalia del 23, a differenza di quelli di agosto, sono contrassegnati come priora e corrispondono ai Pithoigia attici: era il giorno in cui per la prima volta si provava il vino nuovo. Con i Robigalia (25) si teneva la ruggine lontana dai campi. Nell’ultimo giorno del mese o all’inizio di maggio si celebravano i Floralia, che probabilmente all’epoca della redazione del calendario più antico era una festa mobile (feriae conceptivae).

Dicembre è caratterizzato da una serie di celebrazioni che si rivolgono ancora alla terra ed alla sua vegetazione. I Consualia (giorno 15) sono collegati con un giorno dedicato ad Ops (giorno 19). Diva Angerona, celebrata il 21, era probabilmente una divinità ctonia ed i Larentalia (giorno 23), come i Compitalia (feriae conceptivae), appartenevano al medesimo ordine. In questi due giorni si celebravano i Lari, ma nel primo si celebrava in particolare la dea Larentina. Questa si presentava anche come madre del Lari e come tale si chiamava Mania; doveva pertanto essere alquanto vicina ai Mani.

Ancora una parola su gennaio. Prende il suo nome da Ianus, il dio di ogni inizio, la cui festa cade il 9 del mese. Subito dopo vengono i Carmentalia (11 e 15). La dea della nascita si pone in connessione con Giano, visto che ogni nascita è anche un inizio. In connessione con ciò il più antico tempio di Giano sorgeva dinanzi alla porta Carmentalis. Anche la festa del raccolto, le feriae sementivae era celebrata a gennaio. Anche in questo caso si trattava di un inizio, questa volta di quel che nasceva dalla terra.

Tali dati dovrebbero essere sufficienti a mostrare come il calendario costituisse un sistema ordinato, uno schema unitario delle usanze festive, avente alla base una concezione omogenea. Non si può non riconoscere in esso una consapevole volontà creativa. Non si può sapere però se si trettò del prodotto di un gruppo o piuttosto di un singolo. Il solo dato concreto è che tale sistema apparve in un preciso momento storico evidenziando uno scopo non meno preciso.

Nonostante la struttura unitaria, si notano nel calendario strati più antichi. Essi fanni supporre che il sistema conchiuso e stabile che ci è pervenuto attraverso il calendario arcaico, sia invece il risultato di un lento sviluppo.

Si nota inoltre che una serie di divinità proveniva dalla vicina Etruria o dalla Grecia. Ma anche se si prescinde da queste divinità straniere, quel che resta non appare assolutamente omogeneo. Portuno originariamente costituiva una epiclesi di Giano, e solo successivamente divenne una divinità autonoma. Si riconosce pertanto che in uno stadio precedente la redazione del calendario si verificò la dissociazione di un dio da un ambito divino dal carattere omogeneo. Anche in ciò si ricorda che una serie di feste non assume il nome di divinità, come invece Opalia, Larentalia, Consualia, Furrinalia, ma prende la sua denominazione dal carattere specifico dell’azione cultuale. Agonium ad esempio, indica originariamente soltanto che si compiva  un sacrificio. Il che spiega come mai i giorni in cui cade l’Agonium (9 gennaio, 17 marzo, 21 maggio e 11 dicembre) appartengano a quattro diverse divinità (Giano, Marte, Vediove e Sole Indigete). Anche il Quinquatrus del 19 marzo indica soltanto una data: il quinto giorno scuro dopo la luna piena. Dello stesso genere sono Armilustrium, Equirra, Poplifugium, Regifugium, Tubilustrium ed Equus October, che prende il nome dal sacrificio del cavallo. Anche qui, con la dovuta preacauzione, si potrebbe scorgere la coesistenza di strati differenti.

Anche la storia della città ci porta a ulteriori considerazioni. Se Roma era nata dall’unione di diversi gruppi, sorge la naturale domanda se le entità dell’antico calendario non siano da attribuirsi ciascuna ad uno specifico insediamento.

Palatium e Palatino presero il nome da Pales. Ciò indica che era una divinità d’origine latina, legata pertanto alla tradizione di questo popolo di cremare i cadaveri. La stessa cosa vale per Vulcano, il cui il più antico luogo di culto, il Volcanal, si trovava all’interno delle fosse crematorie del Foro. L’altare di Conso si trovava nella vallis Murcia a sud-ovest del Palatino, dove successivamente venne costruito il Circo Massimo. La collocazione era sotterranea e il suo altare era ricoperto di terra. Ciò ricorda la maniera più antica di seppellire le messi; del resto proprio dal “sotterrare” (condere) deriva il nome del dio.

Anche Fauno appartiene all’insediamento del Palatino. Sua festa erano i Lupercali del 15 febbraio. In questo giorno i lucerci, sacerdoti del dio, si cimentavano in una corsa lungo i pendii del Palatino.

Tale usanza ha una giustificazione soltanto se si ammette che il perimetro di questa collina coincidesse con quello della città. Il collegio sacerdotale si divideva in lucerci Fabiani e Quinctiales (o Quintiliani). Entrambi, come indicano i loro nomi, appartenevano a delle sodalitates gentilizie: i Fabiani sono chiaramente collegati alla gens Fabia, la cui tradizione gentilizia si lega al culto di Fauno ed ai lupercalia. D’altra parte il culto gentilizio dei Fabi veniva praticato sul Quirinale e non sul Palatino. Presumibilmente dopo l’unione della comunità del Quirinale con quella del Palatino, fu aggiunta la sodalitas dei Fabiani, facente parte della comunità del Quirinale, a quella dei Quinctiales, il cui luogo di culto si trovava sul Palatino.







A Fauno ed ai luperci si collega il Lupercal, “la grotta del Lupo” situata ai piedi del Palatino. In essa secondo il mito erano stati allattati dalla lupa Romolo e Remo; qui si trovavano la ficus ruminalis e la porta Romana, che conduceva al Tevere, entrambi connessi col nome etrusco Rumon. Anche Diva Rumina, venerata sul Palatino, appartiene a questo ambito. Tutti questi nomi hanno la radice rum, rom, che si trova anche in Romulus e Roma. Come ha mostrato W.Schulze, il nome della città contiene il gentilizio etrusco ruma. Non è quindi casuale che la leggenda di Romolo si leghi al Lupercale ed alle località vicine. Anche i gemelli e figli del dio-lupo Marte nutriti dalla lupa, significativamente si collegano a Fauno o Luperco, che hanno forme di lupo o che rievocano il lupo nel loro nome. Da tutte queste constatazioni risulta che il nome di Roma originariamente si legava al Palatino. La tradizione antica anche in questo caso si è dimostrata vera.

Di contro agli dèi del Palatino abbiamo le divinità delle comunità sabine dei monti romani.

Qui è da menzionare Flora. Il suo tempio più antico si trovava sul Quirinale e pertanto Varrone la annoverò fra le divinità sabine alle quali Tito Tazio eresse altari. In realtà Flora la si incontra solo tra i cugini dei Sabini, le popolazioni sannite e sabelle, nonché tra gli Umbri. La sua festa Fiuusasiais (Floralibus) ed il suo nome (Fluusai kerriai = Florae Cereali) compaiono nell’iscrizione sannitica di Agnone. Altre iscrizioni votive si trovano nella zona meridionale dell’Umbria e lungo il corso superiore dell’Aniene; ad Amiterno e presso i Vestini di Furfo un mese mutua il suo nome proprio da Flora. Gli abitanti del Quirinale portarono con sé la dea nella loro migrazione in terra romana.

Già è stato menzionato Quirino. La sua assimilazione a Romolo non risale oltre il I secolo a.C. Il suo nome ne indica l’ambito di appartenenza. Come il Palatino o Palatium deriva da Pales, così il Quirinale deriva da Quirino. A Roma il culto di questo dio era limitato al Quirinale. Ivi Quirino possedeva un sacellum, considerato il più antico della città, affianco al quale sorse, a partire dal 293, un tempio più sontuoso costruito col bottino delle guerre sannitiche.

Quirino era il dio della guerra, o meglio il dio della guerra della comunità del Quirinale. Ivi infatti Marte non possedeva alcun culto. Da ciò nasce l’ipotesi che la comunità da cui sorse Roma, avessero due diverse divinità della guerra: il palatino Marte ed il quirinale Quirino. In base a tale suddivisione il collegio sacerdotale dei Salii era ripartito in palatini e collini (dal collis Quirinalis): gli uni erano legati a Marte, gli altri a Quirino. Entrambe le solidates rimasero in vigore anche dopo la fusione delle due comunità; questa bipartizione richiama quella dei luperci, della quale si è parlato precedentemente.

Tale divisione originaria si verifica anche in un altro caso. La triade Iuppiter, Iuno e Minerva, di cui parleremo ulteriormente, faceva seguito alla triade più antica costituita da Iuppiter, Mars e Quirinus. Accanto al dio sommo, nel cui culto si incontravano entrambe le comunità, si collocavano le due divinità della guerra.

Ancora una parola sul nome Mars. Appare sotto differenti forme: Mavors, Mars ed anche Mamers, tutte denominazioni di lingua latina. Mars, come da tempo riconosciuto, si formò dal più antico Mavors. Ma anche Mamers, successiva denominazione osca del dio, si comprende solo nell’ambito del latino. Il più antico canto cultuale romano –ossia il carmen arvale – conosce anche il vocativo Marmar. Il composito iterativo che ne è alla base, al nominativo doveva suonare Marts-marts per svilupparsi in Mamars e Mamers. Come da Mars si è formato il praenomen Marcus, così  Mamers da origine al corrispondente Mamercus. Le iscrizioni paleo-arcaiche di Orvieto e quelle di una stips votiva di Vejo, anch’essa risalente al VII secolo, riportano la versione Mamarce, ripresa dall’etrusco. Qui il praenomen appare ancora nella forma che precedeva l’indebolimento vocalico della seconda sillaba (causato dal protostorico accento iniziale).

Anche nel calendario si delinea questa dualità da cui si sviluppò Roma. Ma accanto a questo sistema di divinità originarie delle due comunità, si sviluppa un terzo gruppo di divinità, quelle che da un punto di vista linguistico rimandano all’Etruria: Volcanus, Saturnus, Diva Angerona e Furrina. In tal modo tutte le popolazioni o i clan che parteciparono alla fondazione di Roma, si ripropongono nel più antico ordine festivo  e divino.

Non può quindi meravigliare che tra i più antichi dèi di Roma si trovassero anche divinità greche. Volcanus nasconde sotto il nome etrusco il greco Efesto. Di Liber e del suo rapporto con Dionysos ed Eleutheros si è già parlato. Ceres presenta una perfetta corrispondenza con Demeter, sì da doversi identificare con questa. Anche nel culto Roma non è libera dall’influsso greco. I ritrovamenti di ceramica greca all’interno del più antico strato dell’urbe hanno la loro corrispondenza nel calendario.

Il quadro fu completato con gli scavi del tempio di Hera alla foce del Silaro, non lontano da Paestum. Questi attestano che proprio nella prima metà del VI secolo nell’Italia centrale esisteva una scuola di scultori nei cui lavori trovavano espressione gli dèi ed i miti greci. Attraverso la sequenza dei rilievi delle metope si poteva individuare come le scene fossero legate in una sequenza narrativa.

La posizione dei Greci non fu mai così forte da obbligare Etruschi, Latini e Romani, o altre popolazioni dell’Italia centrale, ad assumere divinità straniere. L’assimilazione di culti greci avveniva dappertutto per libera scelta. Né il potere politico, né influssi economici possono chiarire l’antico e profondo radicamento degli dèi greci. La loro forza e la loro capacità di seduzione era riposta solo in loro stessi. Questi dèi rivelarono alle popolazioni italiche una natura che fino allora era rimasta loro parzialmente o interamente nascosta: si trattava di una realtà spirituale. Quel che si era cercato in Italia o che si era percepito in immagine vaga, appariva ai Greci chiaro e tangibile. Assumendo pertanto questa creazione greca, la realtà di queste potenze divine fu elevata e prese contorni precisi.

Pertanto non è sempre possibile delineare chiari confini tra quanto era proprio e quanto era stato assimilato, tra elemento italico ed elemento greco. Significativi sono al riguardo gli scavi nell’area sacra a nord del tempio dei Dioscuri ad Agrigento. La successione degli strati archeologici indica che il culto di divinità ctonie sicule si rifaceva senza soluzione di continuità a Demeter e a Persefone. E quel che appare nella stratificazione archeologica viene confermato dalla posizione geografica dei luoghi di culto. Una catena di divinità similari unisce il culto di Demeter in Sicilia e nell’Italia meridionale all’Italia e all’Etruria. In quest’ambito bisogna considerare Ceres e Flora presso i Sanniti, i Latini ed a Roma, la capuana Damosia e l’etrusco-romana Anna Perenna. Accanto a Demeter abbiamo Kore, la divina fanciulla; abbiamo Libera e la figlia nel culto di Ceres di Agnone. Lo stesso spazio era occupato da Dioniso nelle sue manifestazioni greche ed italiche.

Gli dèi greci ed il mito greco non pervennero però a Roma per via diretta, almeno non al tempo dei re. E’ già stata considerata e deve essere ulteriormente studiata la mediazione etrusca. Il mito di Enea trasse origine dagli Elimi della Sicilia occidentale, di Se gesta e del monte Erice, e da qui raggiunse il nord. Terracotte di Vejo attestano che la leggenda prese piede verso la metà del V secolo nel sud dell’Etruria e nella vicina Roma. Odisseo già nei versi finali della Teogonia esiodea è indicato in compagnia di Circe al Circeo. Ma, come mostra il nome Ulisse, tale mito non pervenne a Roma attraverso l’epos, ma attraverso la mediazione illirica. Lo stesso vale per Metano o Messalo, in cui si rivela la più antica forma di Poseidone, stallone e sposo della Madre Terra. Gli illiri, più di altri popoli, mantennero elementi arcaici: le maschere dei morti, simili a quelle micenee, la forma dei loro tumoli funerari nello stile delle loro cittadelle e i motivi ornamentali della loro arte orafa.

Così attraverso il calendario arcaico si rivela a Roma tutto il mondo divino preclassico greco. Volcanus-Hephaistos, Liber-Dionysos, Saturnus-Kronos, la Madre Terra nelle sue diverse epiclesi, Poseidon: queste divinità ci riportano ad uno strato precedente quello degli dèi olimpici della poesia omerica. Anche nella vicina Vejo, come mostra l’aritimi delle iscrizioni sacrali arcaiche, è ancora conosciuta la divinità pre-omerica dell’Asia Minore. Nella cerchia delle divinità indigene entrano Fauno, come “colui che azzanna la gola” e come lupo; Pico, il picchio; Marte, lupo e toro: questi dèi mostrano ancora sembianze animalesche. Polarità fra sorgere e tramontare, fra nascita e morte si incontrano nella Madre Terra e nei Lari; elementi ctoni sussistono in Sol e in Iuppiter. Solo successivamente quest’ultimo è stato liberato da ogni tratto ctonio. Lo stesso legame con la natura, che si manifesta nelle forme animalesche e nel rapporto con la terra, conduce al culto delle divinità dei fiumi, di ruscelli e di caverne. Anche gli dèi greci assimilati richiamano elementi naturali. Volcanus-Hephaistos costituiva l’elemento fuoco; Ceres-Demeter era rappresentata come statua e Liber-Dionysos portava in primavera la fioritura della terra, ma guidava anche le schiere dei morti.

La religione romana si rivela dunque elemento della religione dell’Italia antica, parte di un insieme che si prolungava verso il mondo egeo. Sarebbe però estremamente azzardato supporre una iniziale omologazione in ambito religioso fra Roma e le altre realtà politiche. Tutti gli elementi disponibili dimostrano invece che Roma sin dall’origine mostrava un particolare carattere creativo, più originale e più acuto che nelle popolazioni limitrofe. Anche se troviamo gli stessi dèi e le stesse forme cultuali in altre zone d’Italia non si può misconoscere la profonda differenza esistente fra Roma e l’Italia: una differenza nella forma dello spirito.

Come prima considerato in ambito italico come in quello romano gli dèi si manifestavano non nella loro forma statica, ma in azioni ben determinate. Essi erano agenti ed attivi, come si vede anche nella loro onomastica. Roma invece si distinse dal resto d’Italia per il fatto che fissava l’atto divino atemporale in un momento ben preciso, unico. Già negli dèi presenti nel più antico calendario festivo risaltava la struttura storicamente e puntualmente costituita della concezione divina romana.

A causa di questa particolare concezione, Roma non si distinse soltanto dalle genti italiche, ma anche dai Greci. L’evento temporalmente determinato assunse una importanza fino allora sconosciuta. La concezione romana del divino inserito nella storia si contrappose nella sua specificità all’essere degli dèi Greci posto al di sopra ed al di fuori del tempo.

La posizione particolare assunta da Roma non si limitava alla concezione divina. Roma aveva concepito la propria esistenza come una creazione unica ed irripetibile, e sin dall’origine questa consapevolezza viene rispecchiata nei suoi miti e nelle sue istituzioni.

I re che regnarono sulla città di Alba Longa, secondo le fonti, furono discendenti di Enea. Il potere regale fu tramandato per successione ereditaria all’interno della stessa stirpe. A Roma invece mancò una dinastia regale continua ed unitaria; e mai ci si volle legare ai re di Albalonga e trarre da tale legame una qualche pretesa. Al contrario, Romolo significò un nuovo inizio, concetto questo che fu sottolineato con estrema decisione. Sua madre in effetti apparteneva alla famiglia reale albana, ma come vestale perdette la sua intoccabilità, si diede al dio. I figli, che nacquero da questo legame, furono abbandonati per ordine del re albano e quindi cacciati dalla casa e dalla città. Una lupa alimentò i gemelli Romolo e Remo. Come la madre che li allattò, i due gemelli erano dunque lupi e nomadi tra i boschi, spintisi verso un ostile e pericoloso “fuori” ed espulsi da ogni comunità. Essi si trovarono abbandonati a se stessi. Per cui Romolo non ricevette il suo comando da Enea, ma basandosi soltanto sulla propria forza edificò la nuova comunità, meritò il rispetto del suo gruppo e con ciò il comando.

Roma stessa si costituì, attraverso il mito, come realtà peculiare. Roma non fu eretta come colonia di nessun’altra città. Essa, così come il suo fondatore, non ebbe una origine regolare. Albani e Latini, uniti ai pastori che fin dall’inizio erano stati i compagni di Romolo, costituirono la prima comunità. A questa si aggiunsero fuoriusciti, delinquenti e banditi, come era stato del resto il primo re, riunitisi nell’asilo sul Campidoglio. Anche successivamente nessun Romano si volle considerare discendente degli Albani o dei Latini. Essi si consideravano del tutto svincolati dall’ambiente circostante.

Di conseguenza nessuna comunità vicina voleva avere a che fare con questa. I Romani dovettero persino rubare le donne “Voi Romani avete offuscato la perfezione dell’essenza dello Stato (latino), poiché avete accolto in esso Etruschi e Sabini, vagabondi, spiantati e stranieri in gran numero”. Così Dionigi di Alicarnasso faceva parlare l’albano Mezio Fufezio che si rivolgeva al re romano.

Roma si era affermata attraverso le proprie gesta e la propria forza. Attraverso questa ed attraverso la sua volontà si era costituita come comunità autonoma. Senza antenati e senza uno specifico carattere etnico Roma non si era sviluppata spontaneamente ma era stata voluta. Una volta  è stato  detto appunto che la città fu fondata su un suolo straniero che originariamente non le apparteneva. E’ facile capire quel che si intendeva con tale espressione. Tutto il suolo sul quale si estendeva Roma fu conquistato con la forza delle armi. E ciò non vale solo per le conquiste successive: anche il suolo originario, il suolo della patria, era stato conquistato con le armi. Si ribadisce che questo suolo non fu né acquistato, né regalato, né ricevuto come favore. Questo tipo di Stato sapeva di poggiare completamente sulla propria forza.

Queste concezioni risalivano a tempi antichissimi. E’ stata prima sottolineata l’antichità del mito di Enea. Un asilo sul Campidoglio risale probabilmente alle origini di Roma, al VI secolo. Ma già la più antica legislazione di Roma, le XII Tavole, risalenti alla metà del V secolo, non conteneva più nulla di un diritto d’asilo. Certamente non si sa se originariamente l’asilo fosse stato in rapporto con il fondatore della città, tuttavia un altro monumento ne testimonia l’antichità: la lupa bronzea del Campidoglio. Visto che fu eseguita verso la fine della monarchia, vuol dire che già era diffusa a Roma la leggenda di Romolo.

Quel che aveva contraddistinto il primo re di Roma, valse anche per i successori: la mancanza di ogni legame di sangue. Essi non erano assolutamente discendenti ed eredi di Romolo, e non appartenevano ad un unico clan. Qualcuno non era neanche originario di Roma. Lo stesso storico che ha riportato la testimonianza su Roma messa in bocca a Mezio Fufezio, così si espresse: “Dunque voi avete preso il vostro comando dallo straniero, ed anche il vostro senato è composto per lo più di immigrati”.

Ciò lo si può verificare anche da un punto di vista linguistico. La parola germanica per indicare il re (germanico chuning, tedesco Konig) è legata ll’idea di stirpe. Ha la stessa radice di genus e genos. Discendenza, famiglia regante e sangue reale ne costituiscono i presupposti denotativi. Ben diverso è l’ambito semantico del rex romano. Tale termine contrassegna colui che tiene il comando, che si estende su un dominio che viene reso dal termine tedesco “Reich”, costruito sulla medesima radice di rex. Qui non c’entra la discendenza, ma viene espresso il principio che si afferma proprio nella leggenda dei re di Roma.

Ciò vuol dire che non si evidenzia a Roma assolutamente alcun sengo che provi una discendenza ereditaria o una qualsiasi rilevanza data alla famiglia reale. Non si riconosce alcun ordine di successione. Tutti i re, ad eccezione di Numa e di Anco Marzio, morirono , secondo le fonti, di morte violenta. Numa e Tarquinio Prisco non erano neppure romani. L’uno era sabino, l’altro proveniva dall’Etruria. Servio Tullio era schiavo di nascita ed Anco, figlio di donna non maritata, era considerato nipote di Numa, ma non per discendenza maschile. L’unica vera successione dinastica si ebbe con i due Tarquini, ma con l’interruzione di Servio Tullio ed in seguito a un assassinio. Del resto la tradizione condannò all’unanimità i due Tarquini in quanto tiranni e consideravano giusta la loro cacciata.

Questo principio dell’esclusione di ogni successione fondata sul sangue nell’ambito della monarchia romanaè ben saldo e non ammette eccezioni. A ciò corrisponde una struttura simile in ambito divino.

Il re ha in Giove, la divinità somma, il suo corrispettivo: anche questi era ugualmente un isolato. Egli non possedeva un padre divino, non aveva moglie né discendenti. La concezione di paternità gentilizia come il concetto di famiglia gli erano estranei. Questa specificità del culto dello Iuppiter romano la verifichiamo  dalla particolarità del culto capitolino. Esso si differenziava da tutti i culti italici di Giove: si legava soltanto alla monarchia di Roma.

Il rapporto tra il dio del cielo ed il re non si limita alla comune opposizione all’idea genetica. Piuttosto si esprime in un procedere parallelo delle due figure sfociante in un quadro conchiuso e significativo.

Di nuovo ci da notizia di ciò il calendario festivo arcaico. La regalità, dopo aver esaurito il suo ruolo politico, ha continuato a vivere nel culto: il rex sacrificulus assunse le incombenze che un tempo aveva il monarca. Le fasi lunari regolavano i compiti del re all’interno di ciascun mese. All’inizio della prima fase egli salutava l’apparire della luna nuova con un sacrificio; con l’inizio della seconda annunciava le feste dell’intero mese. Inoltre il re svolgeva un ruolo specifico nel Regifugium del 24 febbraio, celebrazione che da lui prendeva il nome. La festa coincideva, in base al mese lunare calcolato di trenta giorni, con l’inizio dell’ultimo quarto lunare. Ma questa volta al re non spettava né un saluto né una predizione. Egli celebrava la fine dell’anno con la sua fuga dal comitium: viveva cioè il rito in prima persona.


Da sottolineare è la connessione con la regalità etrusca. Gli etruschi salutavano infatti pubblicamente il loro signore all’inizio di ogni quarto di luna ed in tale circostanza gli rivolgevano domande sulle questioni dello Stato rimaste in sospeso. Anche qui si determinava l’apparizione pubblica del re attraverso le fasi lunari, ma questa volta anche in ambito politico e non solo cultuale.

Tuttavia la posizione del re romano era più significativa della figura del sovrano etrusco. Il mese presso i Romani originariamente designava anche la luna, la quale, nella sequenza mensile determinava l’annualità. Era pertanto logico  che il re sottolineasse la fine dell’anno con una fuga rituale. Come appare consequenziale che il re fosse in stretto rapporto con questo elemento celeste dal quale dipendeva e attraverso il quale si manifestava lo scorrere del tempo.

Nella Roma repubblicana il generale in trionfo rappresentava nella sua persona Iuppiter Optimum Maximus. Il cocchio trainato da quattro cavalli bianchi corrispondeva al carro del dio del cielo e del sole, e la toga ornata con stelle dorate del trionfatore rappresentava il mantello stellato del cielo, appannaggio di Giove. La corona d’oro, che lo schiavo pubblico reggeva sulla testa del vincitore, apparteneva al tesoro del tempio capitolino. Il trionfatore aveva in comune con Giove anche lo scettro, per cui tutti gli ornamenti del trionfo erano segni del dio. A imitazione della figura cultuale posta nel suo tempio, il rappresentante umano di Giove doveva colorarsi la faccia di minio ed anche ciò attesta la sua identificazione col dio.

D’altro canto era detto chiaramente che l’abito del trionfatore era stato quello del re romano. Ciò indica che, prima dell’istituzione del trionfo, il re, per il suo abito, costituiva l’immagine del dio del cielo. Altro dato significativo era che l’ordine celeste alla base dell’anno del re, si identificava con la sua persona.

A Giove non competeva soltanto il luminoso cielo diurno. A lui appartenevano anche le Idi, giorni di luna piena in cui risplende chiarissima la volta celeste notturna. Tutte le luminosità celesti appartenevano al dio che esprimeva nel suo nome questa proprietà. A lui corrispondeva a Roma una regalità sacrale, la cui forma era determinata dal rapporto con i fenomeni cosmici.

Gli Etruschi diedero un contributo fondamentale alla costituzione di questa regalità. Da loro fu presa la denominazione di idus per il giorno di luna piena; la luna del resto regolava anche le funzioni del re etrusco e non solo di quello romano. Erano etruschi l’usanza del trionfo e l’abito del trionfatore. Mentre si evidenzia l’elemento romani nell’estensione della regalità al ciclo annuale e all’ordine celeste. Questo si collega con il rifiuto della successione ereditaria, di una dinastia reale, del sangue reale. Anche in ciò appare un elemento che dimostra l’unicità di Roma: l’idea particolare che si manifesta nell’immagine di Giove.

mercoledì 16 maggio 2012


"Noi, i combattenti di ieri, di oggi e di domani, ci siamo trovati in un' epoca nella quale tutto ciò in cui abbiamo creduto e per cui abbiamo visto morire un' innumerevole massa di uomini, sembrava sprofondare in un mare di inutilità. Quando ci riunivamo in vari posti ed attorno a varie personalità, ciò avveniva sopratutto per l'intima convinzione della necessità di difesa. Non potevamo rinunciare a ciò per il quale avevamo sacrificato tutto. Dovevamo tener viva la nostra fede che tutto ciò che avveniva, aveva un senso profondo e ineluttabile. La nostra prima decisione doveva essere quella di restare fedeli alla tradizione e di dare rifugio, nei nostri cuori, alle bandiere che non potevano più esporsi senza vergogna. Così dovevamo allora sentire i migliori, e quindi i più decisi di ieri dovevano anche essere i più decisi di domani, i reazionari del passato divenire i rivoluzionari del futuro. Perché nel frattempo abbiamo appreso che il nostro compito è più grande e più importante. La parola "tradizione" ha per noi assunto un nuovo significato, noi in essa non vediamo più la forma compiuta bensì lo spirito vitale ed eterno della cui formazione ogni generazione risponde solo a se stessa. E noi siamo, e ciò lo sentiamo ogni giorno con rinnovata coscienza, noi siamo una generazione nuova, una stirpe che attraverso le vampate e i colpi di maglio della più grande guerra della storia si è indurita e trasformata nel suo intimo. Mentre in tutti i partiti si sta completando il processo di dissoluzione, noi pensiamo, sentiamo e viviamo già in una forma del tutto diversa, e non vi è dubbio fin d'ora che aumentando la consapevolezza di noi stessi, noi sapremo esternare questa forma. Per questo Noi ci sentiamo Combattenti Eletti per un nuovo Stato".

Ernst Junger
(Introduzione alla presentazione del primo numero della rivista "Standarte")

domenica 13 maggio 2012

L' Invasione immigratoria annuncia la fine dell' Europa



“Cosmopolitismo è una espressione infelice, meschina. Noi siamo uomini di un determinato secolo, di una determinata Nazione, di un certo ambiente, di un certo tipo. Queste sono le condizioni necessarie, rispettando le quali possiamo conferire senso e profondità alla vita ”.

(Oswald Spengler)

Ormai si tratta di un fatto assodato, indiscutibile per tutti, l’immigrazione straniera preme sempre più alle frontiere dell’Europa con ondate continue di intensità sempre maggiore e, infatti, i più recenti rapporti redatti dalla Caritas, hanno già registrato la consistenza della penetrazione immigratoria in circa 30 milioni di extracomunitari stanziati sul territorio dell’Unione Europea. Il dato andrebbe decisamente corretto al rialzo, fino ad almeno 50 milioni, se venissero conteggiati quanti, nel frattempo, hanno potuto acquisire più o meno legittimamente il diritto alla cittadinanza nelle singole nazioni. L’incidenza numerica delle popolazioni immigrate in Europa ammonterebbe al 7% della popolazione complessiva, con dislivelli notevoli tra le singole nazioni: lo 0,5% in Romania e Bulgaria, tra il 4 e l’8% nelle altre nazioni dell’Unione. Contrasti simili vengono riproposti anche a livello interno: nella Gran Bretagna, ad esempio, oltre un terzo degli stranieri risiederebbe nell’area metropolitana di Londra; in Francia il 40% degli stranieri si stanzierebbe nell’area di Parigi; in Spagna circa la metà degli immigrati si concentrerebbe tra le aree di Madrid e quelle di Barcellona. In Italia, al contrario, è più marcata la diffusione territoriale e sembrerebbe che solo un quinto del totale degli immigrati si sia stabilita nelle province di Roma e di Milano.

L’Italia, purtroppo, si trova oramai nella drammatica situazione di un avviato superamento della fatale statistica soglia di allarme. Infatti già al gennaio del 2010 la presenza accertata dalle autorità competenti ci riportava la cifra di oltre 4 milioni di stranieri installatisi sul territorio nazionale, quindi di un bel 7% rispetto all’insieme della popolazione italiana.

Sono 4.235.059 (dei quali ben 2.171.652 sarebbero femmine), per la precisione, gli immigrati stranieri stanziati in Italia secondo recenti rapporti dell’ISTAT consegnati alle autorità competenti e di questi i minori ammonterebbero alla considerevole cifra di 932.675 unità (di cui il 22% nati nella nostra nazione), tanto da confermarsi, sempre secondo i dati ufficiali diffusi, decisivi per il contenimento del calo demografico in Italia.

Quindi gli stranieri sono aumentati nel 2009 dell’8,8% (ben 343.764 in più) rispetto all’anno precedente. Un incremento pertanto molto elevato anche se inferiore però agli aumenti registrati nei due anni precedenti (+16,3% nel 2007 e +13,4% nel 2008). Senza gli immigrati, ci informano le fonti governative, l’Italia sarebbe quindi demograficamente più povera.

A fronte di un calo numerico di 75 mila italiani (nel rapporto proporzionale esistente tra le nascite e i decessi), la popolazione residente complessiva è aumentata nel 2009 di circa 295 mila persone e guarda caso solo per l’apporto degli immigrati stranieri.

Non c’è che dire, proprio una gran bella soddisfazione!

Parliamo appunto di presenze accertate che, ovviamente, non tengono conto dei tanti irregolari presenti illegalmente. Quindi complessivamente la cifra supererebbe abbondantemente le 5 milioni di unità e anche la percentuale in proporzione tenderebbe a salire in maniera preoccupante, con una massiccia concentrazione degli stranieri nei quartieri delle città più importanti, solo a Roma gli immigrati rappresenterebbero ben oltre il 7% della popolazione cittadina, mentre a Milano la consistenza numerica salirebbe al livello del 8% e a Firenze ben più del 7%. Pertanto nel complesso più che superiore alla media nazionale.

Possiamo, purtroppo, già parlare sensatamente di una più che preoccupante variabile del fenomeno immigratorio, ovvero di una evidente “immigrazione di popolamento”, che non potrà che avere pesanti ricadute interne alzando ancor di più e in maniera sempre più preoccupante la già elevata soglia di allarme su i temi specifici della sicurezza sul territorio, dell’occupazione, della precarietà sociale dei nostri connazionali e del nostro paesaggio culturale, identitario e spirituale che, a maggior ragione, si troverà costretto a misurarsi con l’invadenza prepotente di una presenza estranea alla vera natura della nostra Nazione e con tutti i perniciosi ricatti di una pseudo-cultura curiosa e sradicata che vorrebbe disegnare, per le generazioni future, tragici scenari cosmopoliti e multirazziali pretendendo di relegare in termini definitivi nell’immondezzaio della Storia l’autentica fisionomia culturale e spirituale che da tempo immemore ha sempre contrassegnato ed identificato l’insieme del nostro popolo e della nostra Nazione.

Anche l’istituzione scolastica nel suo complesso, purtroppo, si sta velocemente adeguando alla nuova situazione sia nei programmi educativi, sia nell’organizzazione interna, per non parlare poi delle specifiche direttive emanate e relative all’obbligatorio adeguamento delle mense scolastiche alle diverse “culture” gastronomiche. La scuola multi-etnica si affaccerà sempre più come una triste realtà con la quale doversi confrontare, soprattutto alla luce di oltre 800.000 nuove iscrizioni di studenti stranieri previste per il nuovo anno scolastico.

Stanno forse lavorando alla programmazione dei “nuovi italiani” di domani? Purtroppo i numerosi segnali volti in tal senso ci convincono sempre più di questo tragico scenario. Non a caso, costoro, verrebbero già qualificati come i portatori di una “doppia identità”.

Se le destinazioni consuete del vettore migratorio proveniente dal “sud” del pianeta registrano ancora un flusso stabile come nel caso della Germania, i paesi che si affacciano sul Mediterraneo, come l’Italia e la Spagna, ne conoscono invece uno smisurato incremento. Le realtà allogene più cospicue presenti in Gran Bretagna sono ancora sempre quelle provenienti dal sub-continente indiano (Pakistan, India e Bangladesh), che in un remoto passato era stato il fiore all’occhiello dell’impero di Sua Maestà. In Francia e in Spagna i flussi migratori provengono, invece, in buona parte, dal nord-Africa (Marocco, Algeria e Tunisia), quasi come si trattasse di una sorta di obbligata eredità del rapporto coloniale che legava in passato il Maghreb alle due nazioni. Le autorità della Spagna, inoltre, continuano ad amministrare direttamente, ma con difficoltà sempre maggiori, l’arcipelago delle Canarie e le enclavi in territorio marocchino di Ceuta e Melilla. La Germania, infine, rappresenta costantemente la destinazione principale degli arrivi dall’area balcanica, dai paesi dell’est europeo e, storicamente, dalla Turchia. Difatti le autorità tedesche hanno recentemente potuto censire 7,3 milioni di stranieri (tra i quali 1,8 milioni di turchi e 560.000 slavi dell’est) in rapporto ai 75 milioni di tedeschi, quindi corrispondenti al 9% della popolazione complessiva. Una gran bella cifra!

Il contrasto culturale e politico all’invasione immigratoria e la promozione del risveglio identitario dei popoli europei rappresentato pertanto e sempre più urgentemente i temi fondamentali per una battaglia culturale e politica indiscutibilmente decisiva per gli assetti futuri. Una battaglia che sembra, adesso, avere anche sollecitato la preoccupazione e l’attenzione di personaggi che, per formazione e cultura, erano stati storicamente estranei alle tematiche identitarie come l’ex-dirigente della Bundesbanked in passato anche esponente della SPD Thilo Sarrazin, che è riuscito a scandalizzare l’intero mondo politico e finanziario tedesco denunciando pubblicamente il rischio di estinzione della nazione tedesca a causa delle invasive politiche favorenti l’immigrazione: “Non desidero che il paese dei miei nipoti e pronipoti diventi in gran parte musulmano, nel quale si parli prevalentemente turco e arabo, dove le donne portano il velo ed il ritmo della giornata è scandito dai muezzin. Se voglio questo, posso prenotare una vacanza in Oriente.” E rincarando la dose sempre Thilo Sarrazin giungeva inoltre a precisare: “Ogni società ha il diritto di decidere chi vuole accogliere ed ogni paese ha il diritto di salvaguardare la propria cultura e le sue tradizioni. Queste riflessioni sono legittime anche in Germania ed in Europa. Non vorrei che noi diventassimo stranieri in patria.”

Quindi riflessioni e giustificate preoccupazioni, sempre più largamente condivise dalle singole popolazioni europee, che vanno a focalizzare l’attenzione sui nodi centrali della questione immigrazione, ovvero quelli relativi alla probabile deformazione strutturale dell’originaria fisionomia delle singole nazioni e di conseguenza dell’Europa.

A tal proposito si dovrebbe tutti rileggere le pregnanti pagine dell’allucinante romanzo Il Campo dei Santi pubblicato in Francia nel 1973 dallo scrittore ed esploratore francese Jean Raspail (ora disponibile in versione italiana nella collana delle Edizioni di Ar), dove si voleva mettere in guardia la Francia e l’Europa dalle fatali conseguenze derivanti da una incontrollata deriva multirazziale, terzomondista e immigratoria che alla lunga avrebbe inevitabilmente portato alla traumatica e violenta disintegrazione dell’intera Civiltà europea. Un terribile presagio che veniva annunciato, dal Raspail, attraverso l’utilizzo di una libera citazione biblica tratta dall’Apocalisse di S.Giovanni: “Il tempo dei mille anni giunge alla fine. Ecco, escono le nazioni che sono ai quattro angoli della terra, il cui numero eguaglia la sabbia del mare. Esse partiranno in spedizione sulla faccia della terra, assalteranno il campo dei Santi e la Città diletta.”

Se allora, nel 1973, quanto coraggiosamente narrato da Jean Raspail poteva apparire ai lettori alquanto inverosimile e non plausibile ai meno accorti, possiamo oggi, con quanto drammaticamente è accaduto (e continua ancora ad accadere, anche se celato da una voluta e imbarazzante omertà) in termini di feroci rivolte da parte di immigrati e naturalizzati in numerose città francesi e il cui “contagio” sembra volersi espandersi nel resto dell’Europa, rimanere indifferenti e perseverare nello scetticismo? Possiamo continuare ad appellarci alla casualità e alla fortuita coincidenza dei fenomeni? Oppure dovremmo parlare di un disastro annunciato? In tal caso dove affonderebbero le radici di questo malessere diffuso?

I roghi che sinistramente hanno illuminato le banlieues della regione di Parigi, di Tolosa, di Lione, di Marsiglia, ecc…, non si sono limitati a consumare tra le fiamme automobili, pullman di linea,empori, autobotti dei Vigili del Fuoco, autoambulanze e automezzi della Gendarmeria. Nelle periferie devastate dai casseurs africani e maghrebini di nazionalità francese (ma tra di loro vi erano anche numerosi immigrati regolarizzati e non) si è disintegrato un intero e fragile tessuto sociale, nei numerosi roghi si sono consumate le altrettanto numerose promesse, fatte e mai mantenute, dalle “anime belle” dell’universalismo cosmopolita e dell’assimilazionismo forzato. Sono bruciate le sempre più deboli certezze proprie delle decadenti, sclerotizzate ed egoiste democrazie capitaliste dell’Occidente liberale e libertario.

Soprattutto si è disintegrata quella fantasia intellettuale, tipicamente mondialista, costituita dalla “religione laica” dei Diritti dell’Uomo, la quarta “religione” monoteista e modernista che è andata ad affiancarsi all’ebraismo, al cristianesimo e all’islam e manifestatasi altrettanto, se non di più, esclusivista e intollerante quanto le altre. Espressione, quindi, di un “mondo virtuale” destinato necessariamente ad implodere. E non crediamo affatto di esagerare affermando che le vicende francesi lo abbiano ben dimostrato.

Il tono prepotente e “fieramente” anti-francese (e quindi nel complesso sostanzialmente anti-europeo) che ha alimentato l’anarchica violenza e lo zelo vendicativo dei rivoltosi ci ha potuto dare, anche, il senso e la chiave di lettura di una violente sollevazione di natura etnica che ha preannunciato al mondo intero, con gli atti di vandalismo e le violente dichiarazioni, la terribile possibilità di volere prestare il fianco ad un inasprimento dello scontro in una paventata versione di conflitto razziale. Tutto nei prossimi tempi verrà soppesato sul piatto della bilancia dei rapporti di forza. I rivoltosi hanno avuto comunque, e nonostante tutto continuano ad avere almeno per ora, buon gioco nell’assestare colpi tremendi ad una identità francese sempre più fiacca e moribonda al fine di rivendicare un ruolo di principali artefici della pretesa edificazione di una innovativa Francia del futuro, coniata artificiosamente a loro immagine e somiglianza.

La strategia mondialista, certamente, emerge con tutta la sua forza con il fenomeno dell’esodo “biblico” delle genti extraeuropee verso il nostro Continente. Un’impressionante (anche perché quotidianamente avviene sotto i nostri occhi) ondata terzo-mondista la cui definizione ormai semplicistica di ‘”immigrazione” ci suona patetica e ipocrita alla luce della constatabile dimensione degli spostamenti continui di popolazione proveniente dal Nord Africa, dall’Africa nera e dal Medio ed Estremo Oriente e, inoltre, stando unicamente alla valutazione del quantitativo numerico che caratterizzerebbe l’ampiezza e la portata del fenomeno, risulterebbe puntuale, logico e maggiormente calzante esprimersi con il termine crudo di “invasione”. Infatti il concetto di “invasione”, come già è stato fatto notare dagli studiosi e analisti del fenomeno, non vuole significare altro che l’ingresso di uno o più popoli nel territorio di un’altra nazione, senza che quest’ultima possa opporsi a tale movimento. Pertanto questa immigrazione cospicua, inarrestabile e incontrollata, che stiamo tutti subendo, cosa altro può essere se non una invasione metodica e capillare?

Una “invasione” ben particolare visto che ha potuto, purtroppo, vantare numerosisponsors tra coloro che, all’insegna di una non ben chiara, ma certamente deleteria, “cultura della solidarietà e dell’accoglienza” richiedono a gran voce esclusivamente maggiori garanzie e tutele a beneficio degli extracomunitari, per non parlare poi di chi apertamente si è fatto portabandiera di allarmanti proposte che ci parlano di una auspicabile assimilazione totale e indiscriminata degli stranieri che spalancherebbe la porta ad una ancor più drammatica “immigrazione di popolamento”.

Già nei primi anni novanta, quando in Italia emergevano le prime più che giustificate perplessità sulla presenza degli immigrati stranieri, nelle principali città della nazione, varie “agenzie pubblicitarie” politico-culturali, degenerati e falsi uomini di “cultura” ed enti politici ricevettero cospicue commesse governative per avviare tutta una serie di iniziative molto propagandistiche e molto poco culturali al fine di convincere e di abituare la popolazione italiana alla presenza, e pertanto alla prossima forzata coabitazione, con gli stranieri ed accettare quindi come storicamente inevitabile l’avvento di una, a detta loro, inevitabile (e per taluni versi anche auspicabile) futura società multirazziale. Si trattava di una esplicita e concreta minaccia rivolta, in nome di presunte ed ineluttabili trasformazioni previste dalla Storia, a tutti coloro che avrebbero preteso di affermare il legittimo e doveroso diritto dei popoli e delle nazioni a preservare sé stessi e la propria secolare identità etnica e culturale. Pertanto per assecondare il progetto mondialista e cosmopolita negli ultimi venti anni si sono mobilitate ibride schiere di parolai, di perniciosi intellettuali, di sindacalisti, di eminenti politici e altrettanto eminenti gerarchie ecclesiastiche tutte votate a favorire con ogni mezzo l’avverarsi del progetto di una società dell’accoglienza protesa verso una futura Europa cosmopolita e multirazziale.

Un fronte compatto di mistificatori che, facendo ricorso ad una presunta fatalità storica e ad altrettanto presunti sensi di colpa, infondevano nelle coscienze degli italiani e degli europei una cupa rassegnazione riguardo all’incremento dei flussi migratori al fine di predisporre gli animi all’immediata e forzata accoglienza degli immigrati extracomunitari.

Predicando incessantemente le parole d’ordine del pensiero mondialista sulla libertà di emigrazione e di immigrazione, ovvero il procedere verso l’apertura indiscriminata delle frontiere al fine di snaturare completamente un popolo e renderlo qualcosa di “altro”, un insieme di individui amorfi orfani di una qualsiasi identità e appartenenza senza più alcuna coesione culturale e storica e pronti, quindi, a perdere anche il concetto stesso di città, regione, nazione e patria. Uomini del mondo, apolidi votati al sincretismo pseudo-religioso e pseudo-culturale e totalmente passivi e indifferenti ai mutamenti che li circondano.

Nonostante i continui disordini che continuano a investire il terzo e quarto mondo (e probabilmente anche grazie ad essi) e l’arrivo continuo nelle nostre contee europee di masse ingenti di stranieri, il meccanismo mondialista degli affari ha continuato a prosperare senza limiti, anzi e proprio per questo che è stato sostanziato da una crescita robusta e sostenuta del meccanismo speculativo finanziario-capitalistico. Una crescita così falsa, orrendamente speculativa e anarchica da causare le pesanti crisi degli ultimi periodi.

Nonostante, comunque, le recenti e note difficoltà economiche, l’unificazione del pianeta all’insegna del progresso tecnocratico e dello smisurato sviluppo economico e finanziario, ovvero i valori fondanti e costitutivi dell’Occidente mercantilistico e plutocratico, non è mai stata così avanzata. Nell’opinione dei suoi fanatici “apostoli”, l’obbiettivo della progressiva affermazione in scala globale della società multirazziale dovrà favorire la diffusione planetaria di modelli di consumo sempre più omogenei che, rappresentando uno dei presupposti principali per lo sviluppo del libero mercato globale, avvierà un processo di creazione di una nuova configurazione sociale fondata sulla distruzione del senso di appartenenza e sulla disintegrazione del legame, ancora oggi nonostante tutto esistente, tra popolo e Storia, cultura e territorio, Nazione e destino. Infatti, diversamente dalla organica visione identitaria, la visione “cataclismica” promossa dal cosmopolitismo multirazziale potrà unicamente produrre l’incubo di una irreale megalopoli mondialista, democraticamente emancipata dove, solamente in astratta teoria, tutti gli uomini avrebbero il loro posto e della quale ciascuno sarebbe un libero e indifferenziato cittadino. Purtroppo siamo coscienti che le cose andranno differentemente, la megalopoli cosmopolita e mondialista che essi farneticamente continuano a paventare sarà terribilmente difforme, perchè vi regneranno l’ingiustizia, lo sfruttamento, la violenza e l’odio. Si lacererà e la tanto decantata “bontà egualitaria” che avrebbe dovuto favorire la pacifica convivenza e quindi placare tutte le dispute darà invece all’ingiustizia, alla violenza, all’odio e alla sopraffazione mezzi moltiplicati. Il rischio dell’annientamento puro e semplice dell’umanità sarà più forte che mai. Questa ingannevole (e utopistica in ogni caso) megalopoli mondialista non potrà che crollare per forza su se stessa come la Torre di Babele, mentre l’Europa e il resto del mondo potrebbero tornare di nuovo ad essere il terreno di una nuova disputa, del nuovo e allo stesso tempo eterno conflitto che ha da sempre contrapposto la Civiltà alla barbarie.

Quindi il porsi conflittualmente sul tema drammatico dell’immigrazione e su tutto ciò che ne conseguirebbe altro non significherebbe che reimmettere il nodo centrale del riconoscimento del diritto-dovere all’appartenenza nazionale, culturale, spirituale e popolare nel cuore stesso del conflitto politico riaffermando l’intima forma della nostra preziosa e speculare identità, opponendosi al cosmopolitismo apolide e oligarchico che vorrebbe piegare i popoli europei alla fatale logica del melting-pot e delle “nuove cittadinanze” e restituendo al nostro popolo il senso e il significato di una comune e speciale Origine radicata in una memoria arcaica e ancestrale. Soprattutto evitando con tutte le forze di ricadere in quel “peccato di omissione” che era stato puntualmente stigmatizzato dall’intellettuale identitario Adolf Bartels: “Sulla terra c’è una colpa antichissima e sempre nuova, non restare fedeli al proprio popolo, non restare fedeli a se stessi.”

Se è vero che il criminale processo globalizzatore vuole tracimare le consistenze identitarie anche attraverso richiami a vaghi e indistinti “diritti umanitari alla cittadinanza” da attribuire indistintamente e indiscriminatamente a chiunque, cioè, alla fin fine, a tutti coloro che più o meno lecitamente, ma sempre più spesso illegalmente, penetrano nella nostra Nazione e per inciso poi rivendicano, anche, arrogantemente il “diritto” (?!?) a rimanerci in pianta stabile, risulta altrettanto evidente che questa parodia, ipocritamente umanitaria, offende e minaccia la nostra intelligenza e la nostra stessa sostanza popolare, le nostre radici, la nostra forma identitaria, la nostra specifica “forma di vita” con tutti i nessi interiori e superiori che la ordinano; mettendo a repentaglio la nostra stessa sopravvivenza culturale, spirituale ed etnica modificando il “paesaggio” che per secoli ci ha visti protagonisti e artefici del nostro destino, insomma tutti quei caratteri che ci mantengono e ci conservano, nonostante tutto, ancora come un popolo dando così forma e sostanza alla nostra Nazione.

Maurizio Rossi

martedì 8 maggio 2012

Noi, Donne nella lotta per il rinnovo della Germania




di Erna Gunter

"La battaglia politica degli ultimi anni venne disputata con incredibile
acredine, poiché alla fine avrebbe dovuto determinare la sopravvivenza del nostro popolo come nazione libera.

Le donne non poterono rimanere in disparte ed estraniarsi dalla lotta, perché era coinvolto anche il loro futuro e il futuro dei loro figli.

Appoggiavamo i partiti del vecchio sistema, ma eravamo insoddisfatte.

Volevamo adoperarci per il nostro popolo. Nel pieno della crisi, fummo costrette a prendere una posizione, senza individuare nulla che ci rappresentasse. Abbiamo vagato, deluse, tra il materialismo marxista-democratico da un lato, e le tenebre della classe borghese, dall’altro. Noi donne abbiamo pensato al nostro popolo come ad un insieme. Abbiamo ritenuto che solo uno stato basato su un’unica e forte componente etnica avrebbe potuto garantire la vita del singolo individuo, uno stato la cui forza sarebbe dipesa dalla collaborazione di tutta la nostra gente.

Poi abbiamo ascoltato i discorsi del primo oratore Nazional Socialista. Abbiamo partecipato a diverse riunioni. Abbiamo udito le parole del Führer e i nostri occhi si sono riempiti di commozione: era ciò che stavamo cercando. Egli, con dedizione appassionata ci ha presentato un’idea dello stato, non più basata sulla contrapposizione fra borghesia e proletariato.

Le promesse che egli ci ha fatto non andranno a beneficio esclusivo di pochi privilegiati. L’appello è stato rivolto a tutte le persone dello stesso sangue e della stessa razza.

Il motto era: “Il bene comune viene prima del bene privato”.

Le posizioni nazionalsocialiste sulle questioni specifiche della nostra vita nazionale divennero chiare in maniera molto graduale.

Fin dall’inizio, però, ognuno di noi percepì che stava accadendo qualcosa di nuovo. Non si trattava di determinare la vittoria di un partito, ma piuttosto, di una nuova visione del mondo in lotta per l’anima della Germania.

E’ possibile osservare i dogmi di un partito, con freddo raziocinio, ma una visione del mondo esige la persona nella sua totalità: ragione e cuore, fede e volontà. La prima cosa che è chiamata a fare una donna non è quella di soffermarsi a studiare i dettagli, bensì quella di donare se stessa in maniera incondizionata. Così le donne che incontrarono l’idea nazionalsocialista divennero ben presto i suoi più accaniti sostenitori.

Intuirono infatti, che avrebbero trovato in questa idea di Stato, fondata sul popolo, sulla discendenza e sulla terra, il loro ruolo naturale come preservatrici della razza, e come guide per i giovani. Dopo essere state conquistate da questo pensiero divennero combattenti attive nella battaglia degli ultimi anni.

Gli uomini stavano in prima linea. Le donne facevano il loro dovere in silenzio. Molte madri pervase dall’angoscia, rimanevano sveglie ad ascoltare i rumori della notte sperando di riconoscere prima o poi un incedere familiare.

Più di una donna perlustrava le strade buie di Berlino, alla ricerca del suo uomo o del figlio, che stava rischiando il suo sangue e la sua vita nella lotta contro la disumanità. Sono stati piegati molti volantini in modo che gli uomini delle SA potessero lasciarli nelle cassette postali. E’ stato dedicato del tempo prezioso alle cucine e alle camerate delle SA. Il denaro è sempre stato raccolto. La nuova fede si stava diffondendo grazie al passaparola. Nessun percorso è stato troppo lungo, nessun servizio per il partito troppo piccolo.

Qualche volta tutto ciò può esserci sembrato noioso o inutile, ma non abbiamo forse imparato qualcosa di valore inestimabile in queste ore? Non abbiamo forse imparato a sentirci parte di un insieme? Non abbiamo forse imparato come parla, pensa e sente il tedesco accanto a noi? Nella vita quotidiana e nei nostri posti
di lavoro si incontrano anche persone provenienti da ambienti diversi. Maimpariamo a conoscere le loro esigenze esteriori e i loro desideri interiori solo quando lavoriamo con loro fianco a fianco, quando vi è una comunione di intenti per il raggiungimento di un unico, grande obiettivo. In quegli anni questo obiettivo è stato: “Dai potere ad Hitler!”

Sapevamo tutti che la garanzia del rinnovo della Germania stava nella personalità del nostro Führer.

Questo obiettivo è stato raggiunto. Un nuovo stato tedesco è cresciuto sotto i nostri occhi.

Ci è venuto spontaneo porci questa domanda: “Ma in questo stato, costruito da forti mani maschili, possiamo noi donne trovare la nostra giusta dimensione?”
Non potremmo forse affermare: “La battaglia è stata vinta. Ora è tempo di pace.
Il nostro aiuto non è più necessario. Possiamo smettere di preoccuparci per la nostra gente ed iniziare ad interessarci solo di noi stesse “Se avessimo servito solo un partito, allora è proprio quello che potremmo dire. Ma non siamo divenute Nazionalsocialiste perché la Germania era in gioco?
E ‘vero non abbiamo posti a sedere in parlamento, e gli uomini hanno riconquistato le posizioni che le donne avevano preso grazie a false ambizioni. Lo stato nazionalsocialista ha bisogno dell’aiuto delle donne, adesso, ancor più che durante gli anni di lotta. Gli uomini possono essere coloro che provvedono alle necessità della vita per il nostro popolo. Lo stato può darci leggi che ancora una volta, provvedono a conferire alle donne i loro ruoli naturali. Ma
dipenderà da noi donne come e quanto queste leggi diverranno comprensibili al popolo. Il nostro compito è quello di tradurle nella vita quotidiana. Non sottovalutate questo compito! So che è più facile fare un salto ai grandi magazzini. Ma abbiate il pensiero di acquistare prodotti nazionali, poiché ogni acquisto contribuisce al salario ed al sostentamento del popolo tedesco.

Siete coscienti che la famiglia rappresenta il volto di un popolo? Le sue caratteristiche materiali e spirituali dipendono dalla donna. La madre dona al proprio marito ed ai suoi figli una casa. Lo spirito materno è la fonte di tutto ciò che è eterno. Così come l’agricoltore, attraverso la terra, è profondamente legato alle forze primordiali della natura, una madre riceve il ritmo della sua vita dalla mano di Dio. Vogliamo ricondurre i nostri figli, ed il nostro intero popolo, a questa fonte primaria di forza. Il compito della donna è quello di
sostituire lo spirito del denaro e dell’interesse personale, con lo spirito della madre e dell’agricoltore. Con questo spirito, noi donne saremo in grado di diffondere calore e profondità ovunque ci sia richiesto di portare a termine il nostro compito.

Una rivoluzione è giustificata, quando a mutare, non è solo la forma esteriore, ma lo stile di vita. Questo nuovo stile di vita prenderà forma per mano di noi donne:
attraverso i nostri vestiti, il cibo che prepariamo, le nostre case e i nostri bisogni spirituali, trasmetteremo il nostro atteggiamento verso la vita, verso la nostra famiglia, e verso lo Stato.

L’educazione dei giovani è nelle nostre mani. Sebbene, sia il nostro spirito a forgiare la loro identità, essi divengono parte della nazione.

Esistono compiti maggiori di questi? Non dovremmo impiegare tutte le nostre forze per poterli realizzare? Non sto parlando di quelle donne che sono rimaste ancora ferme al generale senso di fratellanza umana e non hanno ancora focalizzato la loro attenzione sui valori della propria specie. E non parlo di quelle donne che si uniranno a noi perché credono di poterne trarre vantaggio.

Piuttosto, mi rivolgo a tutte le donne che passano la vita cercando qualcosa, che sono pronte a servire un grande scopo. Per queste donne dico: “Partecipate!

Tutto è in tumulto, qualcosa di nuovo sta nascendo. manifestate le virtù della semplicità, della verità, della lealtà.

Che prenda forma l’immagine della donna tedesca! “

I Tedeschi gettano le loro truppe migliori nella falla aperta. Nelle prime linee, quei volontari europei delle SS il cui morale, nonostante la schiacciante superiorità nemica, è indistruggibile:

"La marea sanguigna che saliva dall'Est cresceva rumoreggiando d'ora in ora. Correva sulle ruote di centinaia di migliaia di veicoli americani, approvvigionata da miliardi di tonnellate di cibo americano, forte di migliaia di carri e d'apparecchi americani. Già questa marea aveva infranti i bastioni orientali dell'Occidente travolgendo la millenaria fatica dei colonizzatori germanici e i segnacoli dell'antica lotta contro la barbarie dell'orda asiatica.
Eppure, noi credevamo ancora.
Il cuore della civiltà occidentale, dell'intero Occidente non poteva morire solo perché alcuni ciechi uomini politici col loro odio miope avevano aperto le dighe al flutto della barbarie permettendogli di investire furiosamente il più valido contrafforte dell'Occidente. Vedevamo ogni giorno nelle nostre file troppi esempi di giovanile coraggio, d'entusiasmo, di spirito di sacrificio, per credere veramente alla cupa profezia del tramonto dell'Occidente".