lunedì 25 aprile 2011

La Fine dell'Europa e l'Inizio della Nostra Resistenza





di Adriano Romualdi
Ogni anno, quando aprile volge alla fine e il vento di primavera impolvera le strade, la rumorosa celebrazione del 25 Aprile ci strappa dagli abituali pensieri per richiamare alla nostra coscienza la tragica fine della guerra. Il crollo politico e spirituale dell’Italia e dell’Europa. In verità nessuna occasione è più propizia per consentirci di valutare adeguatamente l’entità morale della catastrofe: le bandiere alle finestre per celebrare una sconfitta militare, il giubilo concorde del partito russo e di quello americano che, alla distanza di tanti anni, continuano a rappresentare gli interessi dei loro padroni contro l’interesse nazionale europeo, l’apologia e la celebrazione del 25 Aprile ci strappano dagli abituali pensieri e ci portano a quelli del massacro e dell’odio civile.
Ma, al di là dell’agiografia commemorativa, rimane la drammatica importanza dell’anniversario. Poiché la guerra la cui fine si celebra non fu solo guerra civile e mondiale ma la tragedia storica che ha portato alla detronizzazione dell’Europa e ha trasferito le insegne del comando del territorio del nostro continente alla Russia e all’America. Con questa tragedia il tramonto dell’Occidente, profetizzato da Spengler nel 1917, diviene una schiacciante, evidente realtà.
Vi sono epoche nella storia, spesso concluse nel breve giro di mesi o di anni, che ardono da lontano di inestinguibile chiarore, come isolate da un cerchio di luce sull’opaca scena della storia del mondo. Recinti da questa magica cintura di fuoco uomini ed avvenimenti riappaiono con irreale lentezza e ricchezza di particolari come l’estremo profilarsi di costruzioni inghiottite da un incendio che divampa all’orizzonte in una notte serena. Sono le epoche cruciali, quelle in cui l’angelo della storia batte con le sue grandi ali a sollievo o a terrore dei popoli e in cui, nel volgere di pochi, turbinosi eventi, si decidono i destini delle civiltà.
A queste epoche appartiene la seconda guerra mondiale, che segna la lotta estrema dell’Europa contro la morte politica e si conclude con la sua lunga, disperata agonia. In essa ogni breve episodio si cristallizza nella memoria dei secoli, ogni figura subisce una stilizzazione eroica, ogni battaglia diventa epopea e mito.
L’agonia dell’Europa è lunga. Essa incomincia all’alba del 6 giugno 1944 quando il mare di Normandia, d’un tratto, nereggia di navi. È un’armata navale immensa e paurosa, la più grande flotta di tutti i tempi radunata per rovesciare sulle difese del Vallo Occidentale una marea di uomini e di armi. L’America, con le sue forze intatte ed il suo poderoso potenziale industriale scaglia centinaia di migliaia di soldati contro i bastioni della madrepatria europea. E’ la Nemesi storica che si volge contro il vecchio continente colpevole di non aver saputo garantire adeguate possibilità di vita a milioni di suoi figli e di averli lasciati fuggire oltre l’Oceano ad alimentare la forza della grande repubblica materialistica dei deracinés. La lotta divampa crudele sul bianco nastro costiero della penisola di Cotentin. Ogni minuto, ogni ora rimbomba di paurosi boati, di schianti mortali: è il giorno più lungo della guerra, come Rommel lo aveva chiamato. La difesa è impari ma disperata: «Gli uomini della SS – racconterà un superstite di parte americana – si gettavano sui nostri carri armati come lupi sulla preda. Ci costringevano ad ucciderli anche quando ci saremmo accontentati di prenderli prigionieri». È il momento decisivo della guerra: se gli Americani vengono ributtati a mare, se le difese del Westwall tengono, la grande invasione del continente potrà essere ritentata tra due, tre anni. In quel tempo tutto potrebbe cambiare. Ma la schiacciante superiorità delle forze e il totale dominio dell’aria decidono la lotta.
Se il pensiero ripercorre quegli avvenimenti si fissa su alcuni ossessivi dettagli che portano il segno della fatalità. Così la mancata utilizzazione della segnalazione del controspionaggio tedesco che aveva individuato la parola d’ordine dell’invasione diffusa in linguaggio cifrato dalle emittenti inglesi; così l’assenza di Rommel, in visita alla moglie per il compleanno di lei. Ma, due giorni prima dello sbarco di Normandia, ben altro presagio si era mostrato a segnalare sciagura e fine per l’intero continente: la caduta di Roma. Roma la città creatrice della civiltà dell’Occidente il 4 giugno era stata occupata dalle truppe alleate. Pure, sulla via di Roma, dal lontano gennaio in cui erano sbarcati nel porto di Anzio, gli Americani avevano lasciato caterve di morti. E su questo medesimo fronte si erano verificati alcuni oscuri fatti d’armi, piccoli nella cronaca generale della guerra, ma gravidi di significato per l’onore del nostro popolo: per la prima volta dopo l’otto settembre soldati italiani avevano combattuto in prima linea contro l’invasore.
In aprile, dopo l’incontro con Hitler a Klessheim, Mussolini aveva visitato le divisioni italiane addestrate in Germania. Con giubilo indescrivibile Mussolini era stato accolto da un unico grido levatosi dalle bocche di quei dodicimila uomini: «A Nettuno! A Nettuno!». Ora quella prima invocazione alla lotta e al sacrificio aveva trovato conferma nel sangue. Il battaglione Barbarigo, insieme ai volontari delle SS italiane, aveva tenuto valorosamente il fronte tra Borgo Piave e il lago Fogliano. Di mille ne rimasero meno di 400. Ad Ardea e a Pratica di Mare i giovanissimi della Folgore compirono prodigi di valore. Anch’essi si fecero uccidere fino all’ultimo uomo muovendo all’assalto dei cari nemici col moschetto e, all’occorrenza, anche col pugnale. Di 980 andati in linea il 31 maggio, il 3 giugno non ne rimanevano che 30. E questi trenta eroici disperati, ritirandosi verso Roma col cuore pieno d’angoscia per la scomparsa dei loro camerati, ancora trovavano la forza di fermarsi, di piantare le mitragliatrici, di scagliare le ultime, rabbiose raffiche contro il nemico.
Il crollo del Vallo Atlantico e la occupazione della Francia, portata a termine per i primi di settembre, costituirono il primo esempio di “liberazione” in grande stile e, conseguentemente, la grande prova generale del nuovo costume “liberatorio”. L’Europa, che ancora non aveva avuto modo di impratichirsi nella nuova moda politica, trattenne il respiro di fronte ai nuovi orrori, di marca prettamente democratica. «Oh libertà, quanti delitti si commettono in tuo nome!»: queste parole che Madame Roland pronunciò salendo alla ghigliottina costituiscono il miglior commento alla sanguinosa carneficina con la quale si tentò di distruggere tutti quei francesi che avevano collaborato con la Germania per la creazione di un nuovo ordine europeo. Le vittime, secondo le dichiarazioni ufficiali di un ministro francese del dopoguerra, ascendono a oltre centocinquemila. Altri, innumerevoli, vennero stipati nelle prigioni rigurgitanti di uomini e di donne. I volontari antibolscevichi, che hanno bagnato del loro sangue la terra di Russia per difendere l’Europa dal comunismo, subiscono la crudele vendetta dei copartigiani rossi che li braccano, li massacrano, li seviziano. È un’immensa tragedia che prelude a quella che dilagherà in tutta Europa pochi mesi più tardi.
Tra le vittime della “libertà” sono alcuni dei migliori ingegni francesi: gli scrittori Céline e Chateaubriand, costretti all’esilio, Charles Maurras, che paga con l’ergastolo la sua battaglia contro il farisaismo democratico, Drieu La Rochelle, suicidatosi per la incapacità di sopravvivere in un mondo crollato, Brasillach, fucilato nel febbraio del ’45 dopo che, nel settembre dell’anno precedente, si era costituito per far liberare la madre. Brasillach non aveva mai svolto una vera e propria attività politica, non era mai stato iscritto a nessun partito. Ma aveva messo la sua opera di poeta e di scrittore al servizio di quella che riteneva la causa della gioventù europea. Nel carcere egli verga ancora gli ultimi scritti, i versi degli indimenticabili poemi di Fresnes: «Sento il dolore del mio paese con le sue città in fiamme – le sofferenze inflittegli dai suoi nemici e dai suoi alleati – sento l’angoscia del mio paese lacerto nel corpo e nell’anima – chiuso nella ferrea trappola della sofferenza».
* * * * *
Intanto, nella torrida estate che vede la liberazione della Francia, gli alleati risalgono la penisola italiana verso la Linea Gotica. Al Nord la Repubblica Sociale si prepara alla lotta più aspra e disperata. L’invasione del territorio nazionale, l’intensificarsi del terrorismo comunista richiedono una mobilitazione nazionale delle forze combattenti. Gli iscritti al partito, dei 18 ai 60 anni, vengono armati. Nascono così le Brigate Nere. L’anima di questa resistenza accanita, di questo nuovo Fascismo che ritrovato lo spirito e l’audacia delle squadre d’azione, è Pavolini. Giovane, dinamico, interessato ai problemi della cultura e scrittore egli stesso, Pavolini, che proviene da una delle migliori famiglie fiorentine, incarna l’energia disperata dell’ultima battaglia, la volontà della lotta ad oltranza. È lui che organizza i fascisti di Firenze per l’estrema resistenza nella città. A Firenze, sgomberata dai Tedeschi, i franchi tiratori fascisti resistono per una settimana. Uomini, donne, fanciulli, sparano dai tetti sugli alleati e sui comunisti. Dopo la fine della guerra un ufficiale americano, chi gli chiede quale città italiana gli sia piaciuta di più, risponderà: «Firenze, perché è l’unica città dove ho veduto degli italiani che hanno avuto il coraggio di spararci addosso». Malaparte dedicherà un’indimenticabile pagina de La Pelle alla descrizione della fucilazione di franchi tiratori e franche tiratrici fiorentine, ragazzi e ragazze di quindici o sedici anni che muoiono beffandosi dei loro carnefici gridando: «Viva Mussolini!». È l’unica pagina pulita e luminosa in quel libro così tetramente sudicio e opaco, l’unica nella quale il nome italiano esca onorato.
Ma la grande, paurosa minaccia incombe da Oriente. Dalle tragiche giornate di Stalingrado il bolscevismo ha continuato la sua inarrestabile marcia verso Ovest. Nell’estate del ’44 esso forza le porte orientali d’Europa e dilaga nei Balcani. Il tradimento della Romania e delle Bulgaria permette ai sovietici di congiungersi con le bande di Tito e di entrare a Belgrado il 22 ottobre. Pochi giorni prima, il 15, mentre i Russi forzavano i passi dei Carpazi, Horthy aveva chiesto un armistizio. Fulmineamente i Tedeschi ristabiliscono la situazione formando un governo capeggiato dal maggiore Szalazy, il condottiero delle Croci Frecciate, sostenitore della resistenza all’ultimo sangue contro le orde sovietiche che dilagano in tutta l’Ungheria, bruciando, saccheggiando, stuprando. Contemporaneamente le truppe sovietiche hanno continuato la loro avanzata nel settore nord del fronte orientale. Ad agosto hanno occupato il sobborgo orientale di Varsavia, Praha, separato dalla Vistola dal resto della città. Nella capitale polacca divampa la rivolta. Essa sarà miseramente schiacciata dai Tedeschi sotto lo sguardo impassibile dei Russi che, di là dal fiume, assistono con soddisfazione al massacro delle ultime forze “borghesi” polacche. In settembre e in ottobre si compie la tragedia dei paesi baltici, rioccupati dai Russi. Ben trecentomila profughi seguono la ritirata delle armate tedesche mentre le forze superstiti della Wehrmacht si trincerano in una sacca in Curlandia.
La guerra divampa ormai alle frontiere della Germania mentre le città tedesche ardono, notte e giorno, in un continuo rogo di bombe. Ma la volontà di resistenza è incrollabile. Gli alleati insistono nell’offrire l’inconditional surrender. Dall’altra parte i Russi hanno eloquentemente chiarito le loro intenzioni massacrando fino all’ultima donna e all’ultimo bambino la popolazione del primo villaggio tedesco caduto nella loro mani. La risposta a tutto ciò sono le V1 e le V2, le micidiali armi nuove che portano il nome della vendetta (Vergeltung 1 und 2) e che volano oltre la Manica come frecce di fuoco. Di fronte alla minaccia d’invasione del suolo della Patria si decreta la mobilitazione totale. Nasce così il Volksturm, l’“uragano di popolo” nelle cui fila combattono vegliardi e giovinetti. Il 2 ottobre gli Americani giungono davanti alla prima città tedesca, Aquisgrana. All’intimazione di resa il comandante della piazza risponde che «una città dove sono stati incoronati 14 imperatori tedeschi non si arrende senza l’onore di un combattimento». La lotta divampa per venti giorni. Nel centro della città le SS si sacrificano fino all’ultimo uomo per permettere la ritirata dei difensori e la ricostituzione di un fronte sulla Roer che reggerà per ben 4 mesi. Dalle città arse, dalle vie ingombre di cariaggi e di feriti, dalle profonde foreste germaniche si leva ancora l’inno dei giovani hitleriani: «Tremano le fradice ossa del mondo – di fronte alla grande guerra – ma noi continueremo a marciare – anche quanto tutto ci cadrà intorno in pezzi».
Pure, nel tumulto della guerra, la fine del 1944 arreca un poco di sollievo, un momento di tranquillità insperata, di nuova speranza. La fortezza europea è stata invasa ma sul fronte della Vistola, sulla linea Sigfrido, sulla Gotica, in Ungheria la situazione tende a stabilizzarsi. Il mondo si copre di un manto di neve che, come il cielo nebbioso che impedisce il volo ai bombardieri alleati, sembra distendersi a sollievo e protezione dell’Europa. Sono ancora possibili giornate di speranza, di euforia, come quella in cui Mussolini parla a Milano, al Teatro Lirico. All’uscita, una folla indescrivibile gli è intorno, lo saluta col braccio levato, si accalca gridando enfaticamente “Duce, Duce!». È l’ultimo discorso di Mussolini e l’ultimo trionfo. Egli ha parlato con moderazione e fermezza, ha illustrato le realizzazioni della Repubblica, ha polemizzato coi Tedeschi. L’eco è immensa in tutta l’Italia che deve ammettere che il Fascismo è riuscito è riuscito a superare la crisi del 1943, che ha ancora uomini e chances, e che, soprattutto, può ancora affascinare i giovani.
Ma ben altra speranza viene dal fronte occidentale. Un giorno di dicembre l’esercito tedesco, che tutti danno per spossato e boccheggiante, passa violentemente all’offensiva. Le SS escono dalle loro buche nevose e travolgono le sorprese ed impreparate difese americane. È la battaglia delle Ardenne, il canto del cigno della Wehrmacht. Obbiettivo, Anversa, il grande porto belga senza il quale gli Americani non potrebbero continuare l’offensiva contro la Germania. È la estrema, geniale mossa di Hitler, che tenta di ripetere la manovra del 1940, la frattura del fronte nemico e l’insaccamento di una parte di esso. Per quest’ultima, disperata sorpresa si è provveduto al possibile e all’impossibile. Skorzeny, il leggendario liberatore di Mussolini, passa le linee con soldati travestiti da americani cambiando i cartelli stradali e creando lo scompiglio nelle retrovie nemiche. Per un istante il sole della vittoria risplende ancora sulla rossa bandiera crociuncinata. Ma è l’ultimo barbaglio di un astro cadente. Presto la schiacciante superiorità nemica ristabilirà l’equilibrio.
È così che, al principio del 1945, si leva il sipario sull’ultimo atto della tragedia europea. Simbolicamente la prima città martire è Budapest, circondata il 24 dicembre e assediata fino al 20 febbraio. Le Croci Frecciate versano il loro sangue a fianco dei militi tedeschi. È da quel sangue che nascerà la scintilla della rivolta del 1956. Poi è la volta delle provincie orientali tedesche, raggiunte dall’offensiva sovietica del 12 gennaio 1945. Il Gauleiter slesiano Hanke aveva battezzato i lavori difensivi apprestati contro i Russi “Unternehmen Barthold”, l’operazione Barthold, dal nome del leggendario margravio tedesco che fermò i Mongoli in Slesia. Ora sono veramente le nuove orde di Gengis Khan quelle che vengono avanti. La guerra sembra ritornata ai tempi primordiali, quando lo stupro e il saccheggio erano il premio del vincitore. «Soldati dell’Armata Rossa! – scrive in un proclama propagandistico il raffinato letterato ebreo Ilija Ehrenburg – prendete le donne tedesche, umiliate il loro orgoglio razziale!». Mai nessun invito fu più fervidamente preso sul serio. Anche le bambine vengono ripetutamente violentate da dieci, venti soldati fino a morire di dissanguamento. Di fronte ad un così efferato nemico ogni viltà, ogni ritirata, è un crimine intollerabile.
In Italia il terrore slavo infuria sul Carso. Militari e civili vengono seviziati, uccisi gettati nelle cupe voragini dette foibe. Ancora adesso quella terra restituisce gli scheletri dei “giustiziati”, l’uno incatenato all’altro col filo spinato, il vivo accanto al morto che col suo peso trascinava il compagno nell’abisso. È alla Repubblica Sociale che spetta l’orgoglio di aver compiuto l’estrema difesa dell’italianità della Venezia Giulia. Negli ultimi giorni di sfacelo i militi fascisti si dirigono verso il fronte orientale per tentare di salvare il diritto dell’Italia in quelle terre.
Siamo ormai all’epilogo. Il 20 aprile, giorno del suo cinquantaseiesimo compleanno, Adolf Hitler ha preso la drammatica decisione di rimanere a Berlino fino alla fine. I manifesti annunciano alla popolazione, ignara della sua presenza in città, che «il Führer è a Berlino, il Führer rimarrà a Berlino, il Führer difenderà Berlino fino al suo ultimo respiro». Il 23 tutte le sirene suonano: i Russi sono penetrati nei quartieri orientali della città. Incomincia l’ultima battaglia. I giovani hitleriani, in calzoni corti, si gettano sui carri nemici. Particolare significativo: gli ultimi difensori della Cancelleria del Reich non sono tedeschi ma i norvegesi della divisione SS Nordland e i francesi della Charlemagne. Il 30 aprile Hitler si uccide. Il rogo divampa nel cortile della Cancelleria mentre gli ultimi fedeli alzano il braccio nel saluto. Il giorno seguente lo seguirà Goebbels con la moglie e i figli. Lascia scritto: «Credo che in un momento come questo la nostra causa abbia bisogno di esempi più che di uomini».
Anche per l’Italia è giunta l’ora della sua più grande tragedia storica. Gli alleati dilagano ormai oltre la Linea Gotica, invano contrastati dai soldati repubblicani sul Senio e sul Reno. Le bande partigiane possono finalmente scendere al piano per mietere i frutti dell’altrui vittoria. Frutti di sangue. La parola d’ordine è “Uccidete il fascista ovunque lo trovate”. Lo sterminio dei fascisti è sempre legittimato anche quanto si tratta dei 120 allievi diciassettenni della Guardia Repubblicana di Oderzo, arresisi pattuendo di aver salva la vita, o dei prigionieri di Schio, uccisi a tradimento all’interno del carcere. Non è disordinato tumulto o ira di popolo ma una sistematica, precisa disposizione del partito comunista che vuole sbarazzarsi per tempo di tutti gli uomini che possano ancora lottare per impedirgli di prendere il potere. Gli ultimi difensori della Repubblica Sociale, sorpresi dalla catastrofe e dal tradimento dei comandanti tedeschi in Italia, che si arrendono separatamente agli alleati, vengono catturati, disarmati, fucilati. Nel caos finale risplende il miraggio della ridotta in Valtellina, dell’ultima battaglia combattuta tra le nevi eterne delle Alpi. Ma il destino ha deciso le sorti dei capi fascisti e del Duce. Essi condividono il martirio degli oscuri 60.000 assassinati in questa settimana di passione. «Mirate al petto!»: queste le ultime parole di Mussolini trapelate dal silenzio ufficiale imposto dai dirigenti comunisti agli esecutori materiali della fucilazione.
* * *
Brano tratto da Le ultime ore dell’Europa, Edizioni Ciarrapico, Roma 1976.

domenica 10 aprile 2011

ISLAMISMO E IL SUICIDIO IDENTITARIO ITALIANO

    

 



Anche se è difficile fare un censimento delle minoranze musulmane in Italia, a causa della presenza di molti immigrati “irregolari”, proverò a dare alcune cifre.
In una intervista concessa alla Radio Vaticana il 7 febbraio 2006, l’allora ministro dell’Interno italiano Giuseppe Pisanu affermò che «Le moschee e i luoghi di preghiera crescono di pari passo con l’immigrazione islamica che è circa il 35% della complessiva immigrazione italiana. Quella islamica è ormai la seconda religione del nostro Paese».
Secondo il comunicato dell’Istituto Italiano di Statistica–ISTAT, diffuso il 17 ottobre 2006, al 1° gennaio 2006 gli stranieri residenti in Italia erano 2.670.514 (1.350.588 maschi e 1.319.926 femmine). Quindi, facendo i conti, l’immigrazione islamica ufficiale in Italia, alla fine del 2005, era pari a 934.000 unità (il 35% di 2.670.514). Poi ci sono gli immigrati non ufficiali, sui quali è difficile avere dei dati.
Ma quando è iniziato il fenomeno migratorio? Le statistiche sui cittadini stranieri soggiornanti in Italia sono disponibili solo a partire dal 1970. Alla fine di quell’anno gli stranieri erano 143.838 e solo nel 1979 vengono superate le 200.000 unità.
Tra il 1979 e il 1980 si ha un’impennata, e si passa da 205.499 a 298.749 immigrati, con un incremento del 45,4%. In realtà, questo dato è probabilmente frutto del nuovo sistema di registrazione dei permessi di soggiorno varato in quel periodo.
Negli anni ’80 seguono aumenti contenuti, che benché inferiori al 10%, consentono di superare la soglia dei 400.000 soggiornanti nel 1984.
Negli anni ’90 si assiste al raddoppio dei soggiornanti, che passano da 649.000 a fine 1991 a 1.341.000 nel 2000. Il 1997 è un anno simbolico, in cui viene superata la cifra di un milione di unità.
Dal 2001 assistiamo ad un ritmo più sostenuto: 1.360.049 presenze secondo l’Archivio del Ministero dell’Interno, 1.448.392 secondo i dati ISTAT; 1.512.324 presenze secondo il Ministero dell’Interno nel 2002, dati sostanzialmente confermati dall’ISTAT (1.503.286); 2.193.999 nel 2003, anno in cui si superano i due milioni di presenze; 2.319.000 nel 2004, fino a giungere ai 2.670.514 del 2005 e a 1.583.000 di Musulmani presenti all'interno dei confini Nazionali del 2011 ( Dossier statistico Migrantes 2011)
Oggi in Italia operano 400 moschee e 700 luoghi di culto (Farnesina 2011)


«Il progressivo costituirsi in Italia di una popolazione musulmana è strettamente collegato al fenomeno delle migrazioni internazionali, che hanno interessato in modo crescente il nostro paese negli ultimi 15 anni, provocandone il coinvolgimento in tutta una serie di problematiche sociali e culturali già in corso nella maggior parte dei paesi dell’unione europea», scriveva Andrea Pacini sei anni fa (I musulmani in Italia. Dinamiche organizzative e processi di interazione con la società e le istituzioni italiane, in S. Ferrari (a cura di), Musulmani in Italia. La condizione giuridica delle comunità islamiche, Il Mulino, Bologna 2000, pp. 12-52).
E Stefano Allievi notava: «Il ciclo migratorio italiano appare più tardivo di quello europeo centro settentrionale, essendo l’Italia, fino ai primi anni Settanta, ancora un paese esportatore di mano d’opera (…). E sensibilmente diverso appare anche il suo “ciclo musulmano”. Non solo perché ovviamente più recente, ma anche perché le sue caratteristiche sono profondamente diverse da quelle di altri paesi europei» (Musulmani d’Occidente, Carocci, Roma, 2002, p. 49).
L’arrivo dell’immigrazione islamica in Italia
L’Islam in Italia è stato una realtà modesta fino alla fine degli anni ’60, costituita da alcune centinaia di studenti, soprattutto siriani, giordani, palestinesi e iraniani.
La prima presenza musulmana organizzata in Italia risale al 1971, con la costituzione dell’USMI (Unione degli Studenti Musulmani d’Italia), localizzata principalmente nelle città sedi di università, soprattutto a Perugia, dove c’è l’Università per gli Stranieri. Nel decennio tra il 1970 e il 1980 l’USMI apre una decina di luoghi di preghiera.
Nel contempo, a Roma si costituisce il più ufficiale Centro Culturale Islamico, espressione dei governi sunniti arabi, e il cui consiglio di amministrazione è composto prevalentemente da ambasciatori di tali Paesi presso lo Stato italiano o la Santa Sede. Nel 1974 tale Centro inizia a progettare la costruzione della Grande Moschea di Forte Antenne a Roma, che sarà inaugurata, tra molte polemiche, venti anni dopo, nel 1995.
Questo fa sì che molti studiosi del fenomeno migratorio islamico distinguano tra due forme di organizzazione dell’Islam sunnita in Italia: l’“Islam delle moschee” e l’“Islam degli Stati”.
Islamismo e “Fratelli Musulmani”
In questo quadro si innesta la questione dell’“islamismo”, nome con cui si designa il vasto movimento di risveglio islamico del XX secolo, che vuole reagire alla occidentalizzazione dei Paesi islamici avvenuta col colonialismo, reazione che ha per fine una nuova islamizzazione.
Nell’islamismo si possono distinguere due tendenze, una “radicale”, che si propone la conquista del potere politico e, quindi, l’islamizzazione, dall’“alto”, e una “neo-tradizionalista”, che propugna l’islamizzazione dal “basso”, ovvero partendo dal cosiddetto popolo delle moschee.
In questa seconda tendenza si può certamente inquadrare la organizzazione islamista più importante, quella dei “Fratelli Musulmani”, fondata in Egitto nel 1928 da Hasan al-Banna (1906-1949).
Va notata, a questo proposito, una importante diversità di strategia dei “Fratelli Musulmani”. Questi, nei Paesi a maggioranza islamica, perseguono una politica di islamizzazione della società, mentre nei Paesi dove i musulmani sono una minoranza, agiscono per la creazione di spazi islamizzati nella società, all’interno dei quali ai musulmani sunniti siano riconosciuti “diritti collettivi” e uno statuto comunitario specifico (con riferimento in particolare al diritto di famiglia).
In Italia i “Fratelli Musulmani” sono in un certo senso rappresentati dall’UCOOII (Unione delle Comunità e delle Organizzazioni Islamiche in Italia), costituita ad Ancona nel 1990 sulle ceneri dell’USMI, che emerge come la realtà musulmana italiana più diffusa e più radicata nel territorio e che, pur costituendo espressione del cosiddetto “popolo delle moschee” e della islamizzazione dal “basso”, collabora con la Lega Musulmana Mondiale (Rabita), fondata alla Mecca nel 1962 e presente in Italia dal 1997, espressione dell’Arabia Saudita e, quindi, dell’Islam degli “Stati” e dell’islamizzazione dall’alto.
Questa strana alleanza probabilmente è nata dal comune desiderio delle due parti di contrastare la penetrazione sciita nel mondo sunnita, soprattutto dopo la rivoluzione khomeinista in Iran.
All’UCOOII fanno capo una trentina di centri islamici ed una ottantina di moschee, oltre circa trecento luoghi di preghiera che non hanno ancora lo “status” di moschea e alcune volte sono siti in appartamenti privati.
Tra le organizzazioni musulmane operanti in Italia e rappresentanti il cosiddetto Islam degli “Stati”, vanno annoverate la “mosche di Stato” di Palermo, gestita direttamente dal governo tunisino, l’Istituto Culturale Islamico (I.C.I.), sostenuto dall’Egitto, e la Missione Culturale dell’Ambasciata del Marocco.
Verso il suicidio della nostra identità
L’aumento della presenza degli islamici in Italia, la cui visione della vita si trova a fare i conti con la nostra realtà, la nostra storia, la nostra fede e la nostra cultura, è causa di numerosi problemi per la nostra società e ci pone di fronte ad una sfida. Tra le questioni emergenti vi è quella della poligamia.
Questo problema è stato recentemente portato alla ribalta dei media italiani dal noto scrittore di religione musulmana e vice-direttore del più importante quotidiano italiano, il Corriere della Sera, Magdi Allam.
Commentando, tra l’altro, l’art. 11 della bozza di legge sulla libertà religiosa, all’esame del Parlamento, che legittimerebbe la poligamia in Italia, proprio dalle colonne del giornale di cui è vice-direttore, in un articolo apparso l’11 dicembre 2006 dal titolo: Moschee e poligamia, in Italia troppi cedimenti, Allam scrive: «Ma ciò che sfugge a questa inequivocabile presa di posizione di principio è la realtà della poligamia che c’è già in Italia e che viene celebrata nelle moschee d’Italia. Non si vuole comprendere che il matrimonio islamico di per sé contempla la poligamia. Così come non si vuole vedere che l’Ucoii vorrebbe continuare a celebrare nelle moschee matrimoni poligamici anche se non riconosciuti dallo Stato. (….) Siamo arrivati al punto in cui in Italia le moschee le richiedono gli integralisti e gli estremisti islamici, ma le vogliono e le finanziano le istituzioni italiane. Che la poligamia è rivendicata dagli integralisti e estremisti islamici, ma l’approva sostanzialmente (negandola formalmente) la sinistra al potere. Vista dall’alto delle ideologie, è un’Italia che procede ciecamente verso il mito del multiculturalismo. Vista dal basso del vissuto delle persone, è un’Italia condannata inesorabilmente al suicidio».
Ciò avviene, paradossalmente, ma non troppo, proprio nel momento in cui in Italia si vorrebbe legittimare il cosiddetto “matrimonio” omosessuale ed ogni forma di convivenza di fatto. Non troppo paradossalmente, in realtà, perché, in entrambi i casi si tratta di un “vulnus” all’istituto della famiglia monogamica, che abbiamo ereditato dal diritto romano e che è stato elevato alla dignità di sacramento dalla religione cattolica, che costituisce il fondamento e la cellula primaria della società occidentale.
Il confronto su questi temi, inevitabile, data la innegabile differenza di retaggio culturale tra le due civiltà, deve essere franco, aperto e virile. La possibilita' di un rigetto violento e spontaneo della invadente realta' Islamica in Italia , rimane una possibilita' concreta, come e' quella di una mobilitazione simultanea di oltre un milione e mezzo di fedeli Musulmani presenti con finalita' aggressive nella ipotesi di uno stato di crisi geostrategica globale o circoscritta all'area del bacino mediterraneo.

martedì 5 aprile 2011

CIVILTA' PERDUTA

E’ lo sconforto la nota forte che a volte prevale nell’osservare questa Nazione umiliata, persa in se stessa , sconfitta nel senso piu’ profondo del termine e preda di una sorta di disperato vuoto interiore.
Italia che al contrario di altri , non ha scelto di svendere le proprie identita’ complessa in cambio di una elementare anima globale ma di assorbire il peggio di questa epoca atroce senza riuscire a mutare il suo provincialismo di fondo .
Insomma perdendo tutto, senza nulla ottenere in cambio.
E fanno bene in fondo a chiamarlo ‘’Paese’’ quando il termine Nazione per il quale ancora ci battiamo non puo’ essere credibilmente applicato ad una espressione geografica cosi’ integralmente venduta al nemico e per molto meno dei proverbiali trenta denari.
A volte, un quasi disintegrato senso di appartenenza, ci lancia come segugi alla ricerca di una giustificazione da stanare nelle pieghe della storia e allora la miseria e le rovine provocate semmai dal secondo conflitto mondiale , si trasformano in un alibi per quel mancato senso reattivo alla colonizzazione Nord Americana e dei suoi servi .
Poi ,per rigore storico se non intellettuale, abbiamo il dovere di rammentare la resistenza integrale del popolo vietnamita per esempio ben oltre la distorsione ideologica di fondo, I suoi ospedali sotterranei scavati con le unghie , le tipografie clandestine al lume delle lampade ad olio e quella resistenza cieca e fanatica che faceva amputare ai guerriglieri le braccia dei bambini vaccinati dal nemico.
Cuba , con la sua rivoluzione permanente, un embargo che dura da 51 anni, I pezzi di ricambio delle auto fabbricati in casa da un Tornio comunitario, la miseria senza umiliazione ma ncora una volta la fanatica determinazione a non vendere l’anima di un popolo in cambio di un cargo di Coca Cola.
E ancora la guerriglia secolare del crocevia Afgano e migliaia di uomini che accucciati su I talloni bevono acqua sporca e sbocconcellano un chapati semicrudo senza mai separarsi dal fucile d’assalto, per tutta la vita, contro un nemico di volta in volta piu’ potente e ricco.
Gli stessi che hanno sconfitto la furia di Mosca e continuano a combattere quella di Washington , come se il tempo non esistesse.
E’ invidia e ammirazione la nostra, per popoli primitivi gonfi di coraggio e di integrita’ con I quail dobbiamo confrontarci quando pensiamo non solo ai governanti che ci siamo scelti e cioe’ a quella massa parassitaria di deformi politicanti di mestiere , cosi’ privi di un minimo senso dello stato e in preda ad una costante foga predattrice, ma anche al nostro popolo, lo stesso che incapace di rivolta fosse anche nel senso piu’ elementare del termine , si dimostra inerte, incapace di un moto basilare di orgoglio , di rivendicazione, ridotto a bestia contusa da soma . Invaso da etnie ostili e opportuniste , privo di una qualsiasi certezza per il futuro dei propri figli, pronto ancora una volta ad eleggere I pornografi di domani , I ladri di sempre, a patto che la soffice ipnosi televisiva non abbia fine e nella diuturna certezza che un biglietto della lotteria muti il destino miserabile di schiavo nel fango.
E allora, lo sconforto al quale si accennava prima ma ancora una volta, come in qualsiasi anima rivoluzionaria ,la speranza che la grandezza del passato , la nostra capacita’ormai remota di costruire una civilizzazione e di difenderla , sia rimasta piantata da qualche parte nel nostro codice genetico e che un giorno, qualcuno ,dalla stanchezza e dalla disillusione, trovi la forza di costruire con noi una insormontabile barricata . Un limite preciso oltre il quale sia impensabile cedere fosse anche un solo passo.
 
Claudio Modola
Linea Ovest
Militante -CONFEDERATIO- COMUNITA' DI POPOLO