domenica 29 luglio 2012

PIERRE DRIEU LA ROCHELLE



“Noi siamo uomini d’oggi. Siamo soli. Non abbiamo più dei. Non abbiamo più idee. Non crediamo né a Gesù Cristo né a Marx. Bisogna che immediatamente, subito, in questo stesso attimo, costruiamo la torre della nostra disperazione e del nostro orgoglio. Con il sudore ed il sangue di tutte le classi dobbiamo costruire una patria come non si è mai vista; compatta come un blocco d’acciaio, come una calamita. Tutta la limatura d’Europa vi si aggregherà, per amore o per forza. E allora davanti al blocco della nostra Europa, l’Asia, l’America e l’Africa diventeranno polvere“.

«Morirò con gioia selvaggia all’idea che Stalin sarà il padrone del mondo. Finalmente un padrone. È bene che gli uomini abbiano un padrone il quale faccia loro sentire l’onnipresenza feroce di Dio, l’inesorabile voce della legge» (27 dicembre 1942)

«Quello che mi piace nel trionfo del comunismo è non solo la scomparsa di una borghesia detestabile e ottusa, ma anche l’inquadramento del popolo e la rinascita dell’antico dispotismo sacro, dell’aristocrazia assoluta, della teocrazia definitiva. Scompariranno così tutte le assurdità del Rinascimento, della riforma, della rivoluzione americana e francese. Si torna all’Asia; ne abbiamo bisogno» (25 aprile 1943)

«In mancanza del fascismo (…) solo il comunismo può mettere veramente l’Uomo con le spalle al muro costringendolo ad ammettere di nuovo, come non avveniva più dal Medioevo, che ha dei Padroni. Stalin, più che Hitler, è l’espressione della legge suprema» (2 settembre 1943)

Siamo tutti degni uno dell’altro, tutti gli stessi azionisti della società industriale moderna del capitale di miliardi di carta e di migliaia di ore di lavoro fastidioso e vano. Che ciò sia a Kharkov, o a Patin, a Shanghai, o a Philadelphia, non è poi la stessa cosa? Non esistono altro che i moderni, gente piena di affari, gente del plusvalore o del salario, che non pensa che a questo e non discute che di questo.

Non barate, come non baro io. Condannatemi a morte. Non sono soltanto un francese, ma un europeo. Anche voi lo siete, scientemente, o incoscientemente. Ma abbiamo giocato e io ho perduto. Ergo, la morte.

Il suicidio è una viltà, ma una viltà di cui non tutti hanno il coraggio.

Da ragazzo ho giurato a me stesso di restare fedele alla mia giovinezza: un giorno ho cercato di mantenere la parola.

Non ho creduto affatto, dandomi la morte, di contraddire all’idea dell’immortalità che ho sempre sentita viva dentro di me. Era proprio perchè credevo nell’immortalità che mi precipitavo così vivamente verso la morte. Io professavo che ciò che si chiama morte non è che una soglia al di là della quale la vita prosegue, o perlomeno qualcosa di ciò che sia chiama vita, qualcosa che non ne è l’essenza. Credevo, del resto, che possa continuare soltanto ciò che è cominciato; se l’anima continua, è perchè non ha mai cessato di esistere… Certo, rigettavo l’idea volgare della sopravvivenza di un’ anima individuale. Non pensavo certamente di perdere, o di salvare la mia anima personale mettendo fine ai miei giorni.

L’uomo esiste soltanto nel combattimento… Vive soltanto se rischia la morte.

Oltre alla solitudine, l’altra mia grande ricchezza è stata la malinconia. La gente non mi ha capito e mi ha creduto uggioso, annoiato. Io stesso, a volte, non ho capito. Malinconia infinita e deliziosa, fatta del rimpianto di ciò che non avevo perennemente lenito dal piacere per ciò che avevo. Malinconia di essere poco attivo, statico, che si risolveva nel piacere di essere lento e quasi immobile; malinconia di non essere sposato che sfumava, dopo ogni sbandata, nel piacere di non esserlo più; malinconia di vivere in un paese in decadenza che trapassava nel piacere di gustare tanti residui della laidezza del tempo; malinconia di non essere pittore, o poeta, che si risolveva nel piacere di fare grandi scorpacciate di storia; malinconia di non essere un politico, che diventava piacere di scrivere qualche pagina libera. Rimpiango solo di non essermi accettato e riconosciuto per quello che ero, di aver fatto il processo alle mie intenzioni. Tutto quel senso di inferiorità, di persecuzione e di colpa mi ha tormentato e svilito agli occhi miei e altrui. Ma in fondo non posso veramente rammaricarmene, perché senza quell’elemento di inquietudine e di amarezza sarei stato esattamente ciò che potevo apparire ad alcuni: un abietto gaudente senza inferiorità. Ho anche sfruttato il vantaggio rappresentato, per il sibarita, dall’essere dolcemente mistico. Non mi sono privato della compagnia degli dei. E ho visto Dio attraverso le cose. E talvolta, nonostante tutto, sono stato visitato dalla compassione e dall’angoscia.

Io, scrivo sotto l’ombra d’un ponte una frase anonima che nessuno leggerà mai. Ma è una frase detta per sempre. Come per sempre questa piccola maschera di pietra è scolpita in cima alla cattedrale, dove in quattro secoli è stata guardata distrattamente due volte soltanto dagli operai addetti alle riparazioni. Più i dettagli dei miei giorni, delle mie ore, dei miei minuti sono infimi e più mi ci aggrappo; più mi dedico all’effimero e più l’effimero mi distacca… No, mi lega all’eternità che cade nel mio petto goccia a goccia… No, è una goccia sospesa per sempre e che non cade mai.


venerdì 20 luglio 2012

VOLONTà DI POTENZA


Il fronte ideologico che nel secolo XX ha combattuto la pratica distruttiva della tecnica moderna, ormai da qualche decennio non esiste più. La saldatura tra Usura e Umanitarismo universalista, all’origine del pensiero unico, ha portato come conseguenza l’esaurirsi di ogni prospettiva di opposizione al sistema di nichilismo integrale che ci governa.

E dire che, almeno dai tempi di Nietzsche, qui da noi, in Europa, si era giunti a una precoce diagnosi circa le perversioni della modernità. Ed era sorto alla fine un movimento complesso, in grado di generare anticorpi efficaci sotto tutti gli aspetti: da quello filosofico a quello esistenziale, da quello politico a quello dei valori sociali, immaginali e di legame popolare. Se la rivoluzione nietzscheana era consistita soprattutto nella scoperta dello spirito rovinoso del Moderno, non pochi erano stati coloro che, su quella scia, si erano gettati a recuperare l’arcaico, per volgerlo in modernissimo strumento anti-moderno. Basta pensare che, nel cuore della lotta al nichilismo, noi troviamo alcuni dei maggiori teorici della rivolta militante, totalitaria e radicale: da Klages a Jünger, da Bertram a Spengler a Baeumler fino a Heidegger… e secondo alcuni fino a Rosenberg… ma possiamo metterci senz’altro anche Marinetti…

Si tratta di questo: se il nichilismo moderno veicola un potere tecnologico privo d’anima e pervertito, che non riconosce il superiore dall’inferiore e che conduce al disumano, allora occorrerà sviluppare un nichilismo ancora maggiore, ancora più oltranzista, ma di segno positivo, costruttivo e super-umano… al fondo del quale si avrà il rovesciamento dei sottovalori cristiano-umanitario-egualitaristi e il raddrizzamento dell’essere secondo la parola originaria. Oltrepassamento, insomma, dell’uomo borghese pregno di mediocrità, elaborazione dell’individuo differenziato, elevazione della comunità eroica che domina la tecnica, restaura gli arcaismi delle gerarchie del valore e instaura il potere che vige in natura. La “filosofia della crisi” non fece, in effetti, che produrre una Lebensphilosophie, una filosofia neopagana della vita e della rivendicazione del sacro che è nel bios.

Conosciamo, lungo questa strada, qual’è stato il senso del cammino indicato da Heidegger. Il filosofo arcaico che parlava i linguaggi del boscaiolo con la lama etimologica di un Eraclito moderno lo disse più volte e ben chiaro: il nichilismo che sta affogando la nostra civiltà non va tanto condannato, quanto lucidamente diagnosticato. Esso, a ben guardare, nasconde la potenza di un progetto che va nel senso profetizzato da Nietzsche: una nuova umanità, un nuovo tipo di uomo – ma un uomo legato al valore e radicato al suo suolo – deve imporsi per far compiere alla storia il suo ultimo balzo possibile. Per vedere ciò che solitamente viene soltanto guardato, occorre un nuovissimo sguardo pre-socratico. Non contro, ma oltre il nulla.

Un piccolo, ma prezioso libro di Guillaume Faye, Per farla finita col nichilismo (Società Editrice Barbarossa), giunge a proposito per rammentare a noi, sfibrati testimoni dell’assurdo quotidiano, quanto profondo sia il bacino di infusione in cui si formarono le più acuminate idee europee di rivolta contro il mondo moderno. Heidegger, in questo senso, è stato un vertice.

Come si sa, il pensatore della Foresta Nera giudicò che l’annunzio di Nietzsche sulla morte di Dio concluse la metafisica occidentale, aprendo nuovi spazi al possibile. Quello che si crea nel momento in cui irrompe la perdita dei valori è una volontà sovrumanista di superamento e insieme di restaurazione. Dice Faye che Heidegger «si impegna sui sentieri del dopo-nichilismo» proponendo di «ristabilire un “vincolo etico” tra l’essere umano preso nella sua essenza e il suo mondo, non più secondo i principi d’ordine universale». Infatti: l’etica volontarista che dovrà agire sull’ignoto terreno della post-modernità sarà rappresentata da forme vitali non assolute, ma relative. Heidegger condannò la tirannia dell’umanitarismo nato dalla rottura giudeo-cristiana tra uomo e natura. Certe dispotiche trascendenze, secondo lui, avevano teso trappole e inganni, facendo dimenticare all’uomo la propria identità particolare.

Ecco perché, dovendo agire in questa vita per questo uomo, la filosofia dell’avvenire pensa la volontà di potenza come faccenda di questo mondo: la mano del Superuomo sulla tecnica. Anziché rimanere schiavi di una tecnica profana e mercantile, Heidegger propone di concepire un dominio dell’uomo cosciente e creatore sul potere della materia. Come l’antico artigiano, l’artiere, l’homo faber, univano la techne al logos e al mythos, così – pensa Heidegger – si dovrà riallacciare l’arcaico nesso tra volontà e potenza.

Ma dove trovare l’uomo giusto, la giusta volontà atta a scardinare il nichilismo debole del mondo attuale? «Sarà – risponde Faye parafrasando Heidegger – dove risiede il più alto nichilismo… ma sino al punto in cui si dà la possibilità di distruggerlo: nel regno scientifico della potenza tecnica».

In questo riappropriarsi della tecnica, ma in maniera oltranzista e secondo un progetto di rovesciamento, si attua per altro il contromovimento precisato da Jünger al tempo di Oltre la linea. Dato che «tra il caos e il niente c’è una decisione», esiste la possibilità concreta per una volontà di opposizione al disfattismo dell’era presente, così da fare spazio di nuovo e finalmente all’antico nomos, «inteso come tradizione».

Il nichilismo “positivo” auspicato da Heidegger, quello in grado di riassestare il piano inclinato della storia e di produrre la rinascita della grecità arcaica, scaturirà non da una riflessione o da un buon proposito, ma da una lotta: «una lotta è necessaria per decidere quale umanità sia capace dell’incondizionato compimento del nichilismo». Solo una lotta per il padroneggiamento della tecnica dal lato tradizionale «può ancora salvare la soggettività nella superumanità», si legge in Oltrepassamento della metafisica. Non una qualunque umanità, sottolinea inoltre Heidegger, sarà chiamata a «realizzare storicamente il nichilismo incondizionato». Heidegger raccomandò sempre di non smarrire il senso dell’appartenenza e del legame con la provenienza. Sue erano le invocazioni al Bodenständigkeit, il radicamento al suolo, e al «rimanere nella protezione entro ciò che ci è parente».

Faye vuole ricordarci che Heidegger non fu contro il suo tempo per spirito reazionario. Il suo essere “inattuale”, alla maniera di Nietzsche, si colloca nel futuro e nell’ipotesi del superamento dell’umanità umanitaria, quale è stata costruita razionalmente dal cristianesimo e poi ossificata dal mercantilismo liberale. Heidegger propone la lotta e il rischio, ripensa il verso di Hölderlin: «Ma dove c’è il pericolo, cresce anche ciò che salva», e conclude: «Noi guardiamo entro il pericolo e scorgiamo il crescere di ciò che salva». Questa volontà di vivere pericolosamente, questa volontà di volontà, lungi dall’essere fine a se stessa, chiede strumenti per abbattere il dominio del tecno-mondialismo, gestito da chi «trasforma la Terra in mercato mondiale… risolvendo così ogni ente in un affare di calcolo», come è scritto in Sentieri interrotti. E li trova nella volontà di costruire un progetto, innestato in quella che Faye chiama la terza età o età apollinea: quando la volontà di potenza vede con chiarezza, in tutte le sue sfumature, la possibilità di costruire l’ordine di una nuova Ellade. C’è, in questo breve testo di Faye – vecchio di trent’anni, ma nuovo nel ridare alla figura heideggeriana l’inquadratura sovrumanista che le compete – ciò che Francesco Boco, nell’introduzione, definisce indiretto lascito di Giorgio Locchi, un autore ben noto allo scrittore francese ma troppo poco, invece, alla cultura italiana. Effettivamente, Faye non fa che mettere su Heidegger il medesimo accento che questi mise su Nietzsche. In tutti i casi, si vide nella volontà di potenza il cardine di un annuncio. E questo annuncio contiene una sorta di chiamata all’azione, per vedere se la negatività del contemporaneo – il nichilismo – non possa essere volta nella positività del futuribile. E la negazione non possa diventare una grande affermazione.

Diabolico cesellatore della parola, virtuoso assemblatore dei significati sottesi al variare dei prefissi, Heidegger dice cose inequivoche, al di là di certi occultismi lessicali, che Rosenberg ingenerosamente definì una volta come “cabalistici”.

La cerca heideggeriana dell’Inizio nella filosofia eraclitèa della lotta, non era un vezzo di erudito, ma un messaggio ideologico ben preciso. Per fare solo un esempio, la sua esortazione a rientrare in possesso di «ciò che conduce l’alba del pensiero entro il destino della terra occidentale», non è semplicemente un argomento filosofico, ma un indicatore propriamente politico. La filosofia heideggeriana è per lo più una filosofia politica, poiché tende sempre a impegnre l’uomo in relazione alla comunità, al ricordo e alle radici. Cè infatti chi ha giudicato il pensatore anche come un teorico della Führung e della Volksgemeinschaft. Lui stesso come nuovo Platone, inserito in un disegno di rivoluzione culturale: la scienza come bios e la società come comunità organica. Su tutto, la riacquisizione della Grecia arcaica, della sua mistica dell’autoctonia e della sua padronanza sulla techne creativa.

Non a caso, Heidegger difese l’idea naturale della pluralità dei lignaggi, nel senso che ogni popolo è contrassegnato dallo spirito, dalla storia e dalla natura. Secondo Lacoue-Labarthe, addirittura, tutto il pensiero di Heidegger esprime una grande coerenza ideale su questi temi, in un intreccio armonico di filosofia e di politica che renderebbe il suo coinvolgimento con il Nazionalsocialismo, da Heidegger per altro mai sottoposto ad autocritica, del tutto ovvio. Il nocciolo della riflessione lo possiamo individuare nella categoria essere-nel-mondo, usata da Heidegger per realizzare il superamento del soggettivismo liberale. Come ha scritto Losurdo, è qui che l’ideologia del radicamento di Heidegger – espressa sin da Essere e tempo – diventa un valore politico, cioè il legame popolare dato una volta per sempre dalla storia e dalla natura. È un fatto che, molto probabilmente, Heidegger intravide nel Nazionalsocialismo ciò che cercava. Tra l’altro, la concezione che la scienza, come accadeva nell’antica Grecia, non era un semplice bene culturale, ma «la più intima forza determinante dell’intero esserci popolare-statale». Come dire: rinascita del mito comunitario e protezione della famiglia contadina nel suo spazio ancestrale, ma, al tempo stesso, finanziamento dei programmi missilistici.

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Tratto da Linea del 26 settembre 2008.


mercoledì 11 luglio 2012

LA "MIGRAZIONE DORICA"




Il nucleo dei Veda doveva già esistere, almeno come tradizione orale, quando il processo d’indoeuropeizzazione dell’Europa tocca il suo apice, quello che prelude immediatamente al sorgere del mondo greco-romano.

È la cosidetta «migrazione dorica» ossia quel movimento di popoli del Nord – caratterizzati dai loro Urnenfelder – che spinge in Grecia i Dori, avvia le migrazioni italiche nella penisola appenninica e causa la irradiazione dei Celti in tutta l’Europa dell’Ovest.


Incisioni rupestri di Tanum, Bohuslän, Svezia.
La presenza dell’incinerazione in questa seconda e risolutiva ondata indoeuropea ci introduce a un nuovo avvenimento spirituale che si colloca sempre nel solco del simbolismo solare e della «negazione della Madre».

L’incinerazione ha antiche radici nell’Europa-Centrale, ma solo alla fine dell’età del bronzo raggiunge quella espansione e quella compattezza che ci metton di fronte a una nuova visione della vita. È un rituale tipicamente uranico, orientato verso il cielo e la luce. La purificazione dello spirito dal peso della terra e la sua liberazione in pura sostanza di fuoco trovano un’eco precisa in una nuova fioritura del simbolismo celeste.

Il cerchio solare, la croce celtica, il disco puntato, la ruota raggiata traversano tutta l’Europa tra quei due grandi centri di riferimento che sono le incisioni rupestri del Bohuslän e quelle della Valcamonica. Allo stesso modo, dalla Svezia all’Italia – partendo da un focolare mitteleuropeo – fa la sua comparsa il motivo del cigno astrale, destinato a perpetuarsi fino alla leggenda di Lohengrin e del Graal. Il motivo dei due cigni affiancati che tirano la nave del sole, le protome di cigno stilizzate a 5, sono una delle più caratteristiche manifestazioni della cultura dei campi d’urne e ne accompagnano l’espansione giù giù, fin nel Lazio.

Il carro solare – questa volta trainato da un cavallo – è emerso in una palude della Danimarca a confermare la veridicità del mito ellenico dell’Apollo dimorante nel paese degli Iperborei.

Significativamente, nelle incisioni rupestri della Svezia e della Valcamonica, accanto al moltiplicarsi degli standars solari e di divinità maschili, vi è una rimarchevole assenza delle figurine femminili:

«Manca la fanciulla, così come la madre e la partoriente; manca l’immagine del piccolo animale che sugge il latte, immortalato sia a Creta che in Egitto in indimenticabili figurazioni. È un’anima radicalmente diversa quella che si esprime in queste incisioni rupestri nordiche e italiche. All’antico mondo mediterraneo, col suo naturalismo femminile, si contrappone una cultura tipicamente virile. Essa si apre una via verso il Sud» (Altheim, Italien und Rom, Amsterdam und Leipzig 1940, S. 25-26).

Un’assenza che ha un preciso valore indicativo circa il contenuto spirituale della «migrazione dorica». È un contenuto che verrà presto alla luce sia nel pantheon olimpico che nello stile di vita asciutto e severo del doricismo e della romanità.

Intorno al 950 circa, la grande migrazione è finita: nel Peloponneso ci sono ormai i Dori e sui Colli Albani i Latini. L’ethnos italico ed ellenico, saturo di elementi nordici, si prepara alla grande stagione della civiltà classica. Dalla Grecia all’Italia si diffonde una nuova costellazione simbolica la cui stella polare è la svastica – ripetuta centinaia di volte sia sui vasi del cosidetto « periodo geometrico », sia sulle urne a capanna del Lazio.

La preistoria è finita. Sull’Ellade albeggia l’aurora omerica. Significativamente, quando il primo popolo indoeuropeo d’Europa incomincia a parlare, il suo messaggio è quello della religione olimpica.

Di duemilacinquecento anni di preistoria religiosa europea, una parola ci è rimasta: *dyeus.

È il nome della Divinità: Juppiter – da Dius-pater (gen. Iovis, dat. Iovii) tra i Latini; Zeus (gen. Diòs) tra gli Elleni; Dyaus in India; Tyr o Ziu nel mondo germanico. È il nome del dio supremo e – al tempo stesso – quello del cielo divino in tutta la sua luce e tutto il suo splendore.

È questa una importante scelta spirituale: gli Indoeuropei, la razza nordica, gli europei sono il popolo di *dyeus, il popolo della luce. Il popolo destinato a portare il lògos, la legge, l’ordine, la misura. Il popolo che ha divinificato il Cielo di fronte alla Terra, il Giorno di fronte alla Notte, la razza olimpica per eccellenza.

È una scelta destinata a segnare un orientamento di millenni: l’ordine, nel mondo, è opera dell’uomo bianco.

Ma il Giorno, *dyeus, è – al tempo stesso – il Padre. Juppiter, Zeus patér, Dyaus pitàr sono termini che si pronunciano l’uno nell’altro.

L’ordine della luce è un ordine maschile. Non l’ordine della Madre – confondente tutto e tutti in una pacifica promiscuità, e che sta al di qua della civiltà come noi la concepiamo:

«Dal principio della maternità generatrice scaturisce il senso della universale fratellanza di tutti gli esseri, senso che declina e non trova più risuonanze con l’avvento del principio della paternità. La famiglia incentrata nel patriarcato è conchiusa come un organismo individuo, quella matriarcale conserva invece quel carattere tipicamente universalistico che si ritrova nei primordi. Da esso procede quel principio di universale eguaglianza e libertà, che noi spesso ritroviamo come tratto fondamentale dei popoli ginecocratici, insieme alla filoxenìa (simpatia per gli stranieri) e ad una decisa insofferenza per ogni specie di limiti e restrinzioni; infine, non diversa origine ha l’esaltazione del sentimento d’una generale parentela e di una simpatia, synpàtheia – che non conosce limiti… » (Bachofen, Le madri e la virilità olimpica, Milano 1949, pg. 34-35).

Il genio spirituale indoeuropeo – quale si manifesta fin nei primordi, sta appunto nel rifiuto di questa fratellanza promiscua del regno della Madre. Contro la promiscuità stanno la Famiglia e lo Stato, contro la fratellanza universale e bastarda la stirpe e la razza.

Contro il livellamento sta l’Ordine – come principio di differenziazione luminoso. L’Ordine solare del giorno, l’ordine di *dyeus, quale si trova simboleggiato nella svastica, primordiale simbolo della luce .

Adriano Romualdi

venerdì 6 luglio 2012

SPIRITO ARCHITETTONICO DI ROMA




Il poeta, in antico, era vate e il suo carme era spesso espressione di un’antiveggenza dovuta all’autentica comunione del suo spirito con un mondo sovrumano e supertemporale. Anche Dante in questo senso era vate: è evidente nella sua idea ghibellina, nella sua concezione dell’Impero che si ritrova nel De Monarchia e nella Comedia.

Ora, c’è un epodo di Orazio, nel quale con amarezza ci parla, come sotto ispirazione profetica, dell’Impero che dovrà crollare, di future calate di barbari, di decadenza e di grandi ruine, e tra l’altro il poeta annuncia: “… le ossa di Romolo composte nel sepolcro e finora protette dagli ardori del sole e dalle tempeste, il vincitore disperderà sacrilegamente”. Tutto questo, in realtà, si è andato compiendo per secoli e secoli, con tragica veemenza, con la durezza incontrastabile delle vicende predestinate ad opera di razze barbare cui Roma aveva recato la luce della sua “solare” civiltà.

Ma, sotto nuovi aspetti, in manifestazioni della genialità, in conquiste della scienza, in molteplici vicende guerriere, nella gloria di città e di nuove repubbliche, lo spirito e la razza di Roma, inestinguibili lungo il corso dei secoli si riaffermano con la loro perenne missione, redimendo ancora l’anima del barbaro, ponendo come esemplare di valore universo il costume italico della saggezza e della vita. Così oggi nell’Era Fascista, noi possiamo affermare che l’epoca dei barbari si è definitivamente chiusa: la profezia del poeta si è ormai esaurita in tutti i suoi aspri particolari. “Ritorna sui colli fatali l’Impero di Roma” come il Duce annunciava in un giorno fatidico per il popolo italiano.

Si è esaurita la profezia perché i fori imperiali e i monumenti, della cui contaminazione Orazio profeticamente si doleva, tornano ad essere investiti della luce del sole di Roma, in un fasto di rinnovellata potenza: una nuova volontà d’imperio virtualmente riprende, con la Tradizione di Roma, la missione della civiltà e della cultura in un’epoca in cui nuovi aspetti dell’antica barbarie, di una barbarie pseudo-civilizzata si presentano come una immane minaccia per i destini occidentali.


Che cosa era in origine un Foro? Niente altro che una vasta piazza, circondata da portici, nella quale i cittadini si raccoglievano o per adunanze pubbliche o per rendere giustizia o per mercati (civilia,judiciaria, penalia). Ci dice Vitruvio che i Greci lo costruivano quadrato, cinto da portico doppio, con colonne fitte e a due piani; mentre fra i Romani si eresse più spazioso, anche perché serviva talora di agone ai gladiatori, ed erano così di un’ariosa ampiezza i relativi intercolumni e le gallerie, perché vi si potesse comodamente passeggiare. Nei Fori, poi, che servivano da mercato tra i portici, si collocavano botteghe di mercanti e di cambiamonete e mostre di oggetti vari.Tra i fasti, i riti e i monumenti che tornano in onore per virtù di questo contatto supertemporale con la tradizione nella Roma mussoliniana presenta valore di simboloquello che fu l’olimpo della storia e il cuore stesso della civiltà romulea: il Foro. La vita politica e civile, culturale ed artistica dell’urbe antica ferveva infatti nel Foro, come un centro di forza e di radianza più fervida. Non v’è dinamicità di metropoli moderna che possa uguagliare il calore creativo che emanava dalla folla raccolta nel Foro, formicolante in toghe e pepli, tra i templi e le statue dorate, sotto gli occhi delle basiliche, maestosa nell’incedere e con una permanente serenità del volto, mentre nel mezzo fervevano arringhe politiche o pompe sacre. Vi si respirava un’atmosfera imperiale che recava con sé anzitutto il senso del “divino” in quanto ogni atto ed ogni gesto del romano antico rivestivano valore rituale: in ogni ora del giorno il suo vivere era un’offerta al mondo superno, un motivo di contatto con il sovrannaturale che realizzava la continua sintesi di spirito e azione, di religione e di vita – il che significava costruzione effettiva della civiltà e dell’imperium.

Di uno splendore più aristocratico invece brillano i fori imperiali ai quali è legato un significato sovrammateriale e di consacrazione e di trionfo. Il Foro romano, o latino, s’impone nell’opinione pubblica per le arringhe che tenevano i giurisperiti e gli oratori più insigni, dalla tribuna ornata con rostri presi ai Cartaginesi. Augusto elevò nel suo tempio di Marte Ultore, cinto di doppia galleria, con le statue dei re latini da un lato e quelle dei re romani dall’altro. Il Foro di Nerva, cominciato da Domiziano, venne ornato da Alessandro Severo di colonne di bronzo e di colossali statue di imperatori. Per splendore di arte si distinse altresì il Foro di Traiano, ma non meno costoso e imponente fu quello di Cesare con nel mezzo il Tempio a Venere Genitrice e la statua equestre di lui ricordata da Svetonio e da Plinio.

A ogni costruzione di Foro corrispondeva la celebrazione di gesta vittoriose o di una personalità affermatasi con onore nella vita dell’Urbe: esso dunque costituiva il simbolo di una dignità dello spirito, il suggello di un significato superiore: era il segno architettonico di una conquista, di una realizzazione compiuta, che, elevato con senso di eternità, dovesse rimanere imperituro nel tempo ad ammaestrare le future generazioni e a testimoniare il favore degli Dei. Dalla rievocazione della vita del Foro, riappaiono sotto una più chiara luce le figure dei Gracchi, di Mario, di Silla, di Pompeo, di Cesare, di Cicerone, di Clodio, le poderose lotte delle leggi agrarie, dell’oligarchia e del popolo, della repubblica e dell’impero, tutta la vita vissuta da Roma, sceneggiata e combattuta sulla tribuna dei rostri, e il Comizio presso il Fico Ruminale che protesse della sua ombra i fondatori della città. Nella vita del Foro si esprimeva con vigoroso realismo tutta la magnificenza dello spirito quirite.

Il trionfo di una razza superiore vi era rappresentato in ogni manifestazione del gusto costruttivo: la folla che passeggiava per il Foro era presa essa stessa da quel senso di grandezza che era legato ai templi ed alle statue. Così, ancora oggi, dietro le colonne e le trabeazioni rimesse in luce nella regale maestà delle basiliche e delle arcate, sembra che si profilino, per una consociazione di immagini che si sottraggono alla legge del tempo, le piramidi e i colossi per metà sommersi nelle arene del deserto africano, gli avanzi di Eliopoli e di Palmira, i resti divini dell’Acropoli di Atene. La tragica visione di Orazio si è ormai esaurita lungo le tempestose vicende del tempo: il cielo infine si rischiara al lume di un nuovo sole: l’anima architettonica di Roma è tornata per virtù di Mussolini: una nuova aurora imperiale già brilla attraverso il sereno arco dell’iride.

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Tratto da “Il Resto del Carlino” del 28 giugno 1939, A. XVII E.F.

di Massimo Scaligero