mercoledì 27 giugno 2012

DEUTSCHER SOZIALISMUS


«Il nazionalsocialismo può rivendicare il merito di aver sviluppato la personalità al massimo grado, ma in favore e non contro la comunità. Ciò che noi abbiamo in tal modo raggiunto è il vero socialismo“.

Robert Ley (Deutsche Arbeitsfront)



I cinquant’anni che seguirono il rogo di Berlino, contrassegnati dal dogma del nuovo verbo democratico e dall’occupazione sovietico-statunitense del Continente, si contraddistinsero altresì per un appiattimento dell’analisi politica all’interno dell’angusto sistema dialettico che è stato ultimamente definito politicamente corretto. In seno ad esso le sporadiche voci di dissenso politico-culturale furono costantemente messe ai margini non solo – ovviamente – della sfera istituzionale, in quanto categoricamente escluse da ogni forma di gestione del potere, ma anche da quella del riconoscimento culturale tout court, dovendo subire ogni giorno i poderosi attacchi della propaganda che le relegava – demonizzandole – alla cattività sociale, ovvero alla più rigorosa damnatio memoriae.

Questo scenario di oppressione e decadenza, per quanto ulteriori margini di involuzioni non potessero essere previsti – si pensava di essere alle tenebre della mezzanotte, quando si era solo al crepuscolo di mezza sera – trovò nei vent’anni successivi, i due decenni appena trascorsi, una nuova recrudescenza. Fino alla fine del lungo dopoguerra, che possiamo fare convenzionalmente coincidere col 1990, il dibattito politico, sociale ed economico conferiva infatti ancora – per quanto nell’ambito dell’analisi di fenomeni politici comunque decadenti – una sorta di dignità e di riconoscimento culturale al totalitarismo. L’esistenza dell’Unione Sovietica e delle «democrazie popolari» nei Paesi dell’Europa orientale e il sostegno (inizialmente incondizionato, in seguito sempre più tiepido) che a tali entità statuali conferivano i partiti comunisti dell’Occidente delineavano una legittimazione di fondo al fatto che un modello politico, se portatore di giustizia sociale ed elevatore della condizione umana, potesse essere imposto, anche attraverso gli aspetti più esteticamente coercitivi tipici dei regimi totalitari. Non fosse stato applicato al marxismo burocratico ed economicistico, che di «socialista» portava indegnamente il nome, il ragionamento non avrebbe fatto una grinza.

Si consideri l’esempio di due malati neurologici. Il primo ha delle sporadiche carenze di lucidità in un contesto anamnestico di normalità, il secondo si aggira per le strade con lo scolapasta sulla testa e lancia pietre ai passanti. A differenza del primo, col quale i medici potranno concordare congiuntamente un percorso terapeutico, al secondo la terapia dovrà essere somministrata in via coercitiva, per il bene suo e pro rei publicae salutis. E proprio quindi a un malato all’ultimo stadio (che tra l’altro non ha neanche coscienza della sua patologia) che è paragonabile senza mezzi termini la società mercantilistica d’occidente, ed è proprio nel trattamento «sanitario» obbligatorio che risiede il valore positivo del totalitarismo. In ispecie quando occorra riconvertire gli animi, le coscienze e le strutture dello Stato a uno schema socioeconomico socialista, che andrà necessariamente a cozzare contro gli istinti primordiali e predatori che la società capitalista ha esasperato elevandoli all’ennesima potenza. Se questo discorso è stato eziologicamente fondato nella sua applicazione ai sistemi parasocialisti-marxiani europei della seconda metà del ventesimo secolo, in maggior ragione lo è relativamente ai fascismi europei e alle forme politiche del Terzo Reich nazionalsocialista, in cui la ristrutturazione in chiave socialista della società era corollario di una più ampia restaurazione dell’umano che avrebbe svincolato il Volk, comunità organica di destino, dal dogmatismo economicistico capitalista-borghese, dall’umanesimo cosmopolita giudaico-cristiano e dal reificante messianesimo burocratico marxista.

Una sorta di nichilismo istituzionale manifestatosi nel – e dal – cuore d’Europa tra gli anni Trenta e Quaranta del secolo scorso che la critica politica contemporanea umilia rimarcandone esclusivamente (oltre alle trite leggende holocaustiche) gli aspetti più esteriori della gestione del potere, senza i quali non sarebbe stata neppure ipotizzabile la massiccia spinta rivoluzionaria che da Berlino si irradiò nel continente europeo accendendo le braci – sopite ma mai spente – del socialismo prussiano e del nuovo nazionalismo socialista.

Piaccia o meno, infatti, il Terzo Reich fu anche uno Stato socialista, il crogiuolo politico e istituzionale in cui prenderà forma il vero socialismo del XX secolo, un socialismo erede della millenaria tradizione germanico-europea, un socialismo radicale nel suo mirare alla definitiva eradicazione (anche nel campo extra-economico) del morbo borghese e della mentalità mercantile. Ed ancora un socialismo allo stesso tempo istituzionale nella sua attuazione di strutture sociali, economiche e assistenziali volte alla preservazione del benessere, della sobrietà e della elevazione extramorale del popolo, un socialismo, infine, attuale in quanto consapevole della necessità contingente di blindare le conquiste popolari in un contesto politico totalitario e di militarizzazione sociale volto alla difesa dai nemici interni (il risorgere di tendenze borghesi, il potere residuale del capitalismo bancario) ed esterni (le plutocrazie capitaliste e marxiste che contro il Reich scatenarono la più violenta guerra d’aggressione che la storia ricordi).



Svincolamento dalla finanza internazionale ed eradicazione dell’indole borghese.

Nella storia dell’economia, l’evento che ha contrassegnato il passaggio epocale tra la società tradizionale e la decadenza della modernità è stato segnato (contestualmente ai prodromi del capitalismo moderno) dallo slegamento delle dinamiche e delle politiche economiche delle società e degli Stati da quella che può essere definita «economia reale» e il loro avvicinamento alla fumosa «economia finanziaria». Per economia reale si intende quella che può essere tangibilmente percepita dal popolo, che vede sotto i propri occhi la ricchezza dello Stato nascere dal proprio lavoro e trasformarsi in benessere collettivo e servizi, in sicurezza militare e tutela sociale, nella casa e nel pane, nella tranquillità per il proprio futuro scaturita da una corretta gestione del presente.

È la sola economia possibile, che per sua natura non può che essere stata socialista ante litteram, escludendo a priori ed essendo la naturale antitesi all’accumulazione e alla predazione capitalista, sia questa gestita da apparati statali o da privati. L’economia finanziaria è invece quel complesso di norme e consuetudini che «regolano» i processi di arricchimento di ristretti e parassitari settori della società e prescrivono, finché è possibile, il mantenimento di una parvenza di adeguato tenore di vita alla parte politicamente più rilevante della società, che si lascerà così addomesticare al ruolo di guardiana del sistema: la borghesia. L’economia finanziaria si basa sulla speculazione, sulla ricchezza nominale delle Borse, sui prodotti finanziari, sulle fluttuazioni dei mercati, su un sistema di costante prevaricazione esercitato dalle banche su popoli e governi e – non ultimo – sul signoraggio monetario di cui queste si arrogano la titolarità, sulla creazione cioè di ricchezza dall’emissione di moneta prestata, quindi addebitata agli Stati all’atto dell’emissione.

Proprio con la liberazione dal giogo bancario mosse i primi passi la nuova economia del Reich, consapevole del fatto che gli errori, in economia come in ogni campo dell’esistenza, sono sempre nelle premesse e che senza tale fondamentale prerequisito non sarebbe stata possibile la radicale trasformazione della società tedesca in chiave nazionale e socialista. Già nel 1933, infatti, il rilancio dell’economia fu fondato sul marco, per il quale fu imposto il corso forzoso e la non convertibilità in oro. Il reichsmark divenne così lo strumento della pianificazione, il cui valore sarebbe stato quindi garantito esclusivamente dalla ricchezza e dalla stabilità del nuovo Stato, il quale a sua volta ne avrebbe difeso la tenuta attraverso le prime misure fiscali realmente popolari che penalizzavano le rendite finanziarie e – soprattutto – tramite le nuove disposizioni inerenti le banche, disposizioni che manifestarono storicamente (e che nei secoli a venire testimonieranno) la portata epocale, la straordinaria potenza e la ferrea determinazione della rivoluzione nazionalsocialista.

Numerose banche private furono infatti nazionalizzate, e sulle banche che restavano in mani private erano esercitate funzioni di controllo progressivamente crescenti da parte di appositi istituti pubblici. Per quanto riguarda la Reichsbank, una serie di disposizioni legislative che presero avvio con la legge del 27 ottobre 1933 e culminarono con quella del 16 giugno 1939, liberarono l’istituto bancario dalla perniciosa tutela della finanza internazionale (tutela esercitata tramite la Banca dei Regolamenti Internazionali), stabilirono che il suo presidente e i maggiori funzionari dovessero essere nominati dal Presidente del Reich e la trasformarono di fatto in un Ente dello Stato. Prendeva così corpo, nell’Europa del ventesimo secolo, la più eretica delle eresie: la riappropriazione nazionale e popolare dell’Istituto bancario centrale di emissione (e taluni ancora pensano che la guerra mondiale iniziò per Danzica!).

I provvedimenti legislativi a tutela del nuovo corso economico socialista tedesco, strutturalmente orientati in una pianificazione quadriennale, non si fecero attendere e furono nel loro complesso orientati alla definizione della figura del nuovo cittadino del Reich, che era liberato dalla servitù economica cui era sottoposto durante il precedente periodo di dittatura liberale e veniva finalmente vincolato a un patto nazionale che sarebbe tornato a conferire vigore all’economia tramite la repressione dell’indole borghese e la sottomissione dell’economia alle direttive politiche del Governo e dello Stato. Tali provvedimenti legislativi furono chiosati con efficacia dal decreto del primo dicembre 1936, che così recitava al suo articolo 1: «Ogni cittadino tedesco che, consciamente o inconsciamente, spinto da basso egoismo o da qualsivoglia vile sentimento, avrà contravvenuto alle disposizioni legislative, causando in tal modo un grave pregiudizio all’economia tedesca, potrà essere condannato a morte e subire la confisca dei beni».
In un tale contesto lo sviluppo economico avrebbe quindi potuto affermarsi solo sui solidi binari dell’economia «reale», di produzione, un’economia intesa come servigio reso allo Stato e quindi alla comunità nazionale totalitariamente concepita: il Volk.

Nel dominio dell’agricoltura nazionale, la Neuadel aus Blut und Boden, la nuova nobiltà di sangue e suolo delineata e auspicata nell’analisi politica del Ministro dell’agricoltura Richard Walter Darre, trovò compimento e realizzazione nell’istituto giuridico dell’Erbhof, istituito dalla legge 29 settembre 1933, completata dal decreto 21 dicembre 1936. L’Erbhof, catalizzatore dello spirito del contadinato germanico e decantatore politico dell’aristocrazia agraria socialista del nuovo Stato tedesco, consisteva nell’unità base dell’ambiente rurale nazionale che le famiglie di sangue germanico tramandavano ai loro discendenti e che era categoricamente esclusa da qualsivoglia negozio giuridico di natura capitalistica, quali la compravendita, l’alienazione totale o parziale, l’ipoteca.

La legge sull’Erbhof sortì quindi un duplice effetto ed ebbe una duplice manifestazione nell’affermazione pratica e nell’istituzionalizzazione della dottrina socioeconomica nazionalsocialista: innanzitutto quella per cui la legislazione statale si trovò a coincidere con le istanze di tutela nazional-razziale della società promuovendo, appunto, l’indissolubile vincolo tra Blut e Boden (sangue e suolo); la seconda fu invece la dimostrazione del livello di straordinario avanzamento sociale del contadino germanico il quale, in quanto ancora vincolato a un modello sociale e di sviluppo tradizionale e millenario, riuscì a fare propria, con completa naturalezza, una riforma politica intrinsecamente socialista senza che de iure si eliminasse la proprietà privata sul bene (un bene di profonda utilità sociale quale il terreno agricolo), misura che in contesti di decadenza come l’attuale potrebbe invece rendersi totalitariamente necessaria al fine di contrastare le resistenze «proprietarie» di quello che oggi è il contadino-borghese. All’agricoltore, il Bauer, nazionalsocialista era pertanto concessa quella libertà che – ci si figuri oggi – già all’epoca era privilegio degli uomini più liberi, la libertà suprema, quella cioè derivante dalla consapevolezza di se stessi e dal radicato senso di responsabilità nazionale: la libertà di padroneggiare la proprietà privata senza il rischio che la proprietà padroneggiasse sul possessore, secondo le regole di esasperazione dell’accumulo di ricchezza che vigono nelle società ad economia capitalista.

Nel campo della produzione industriale si manifestò in maggior misura la propensione delle autorità del Terzo Reich allo sviluppo della dimensione tangibile dell’economia nazionale, alla promozione di quell’economia reale e popolare libera dai condizionamenti della finanza internazionale e facente perno e leva sull’obiettivo primario, consistente nell’elevazione sociale del popolo. In seno alle direttive stabilite dal Piano economico quadriennale e forti della stabilità conferita dalla nazionalizzazione del sistema bancario e monetario, si stabilì pertanto di indirizzare la volontà economica dello Stato nella direzione dell’incremento massiccio della produzione, della razionalizzazione del consumo attraverso il controllo da esercitarsi sulla domanda e sull’offerta, a livello tanto microeconomico quanto macroeconomico, dello sviluppo della rete logistica di distribuzione, dei trasporti e dei servizi e, quale naturale conseguenza, del conseguimento dell’autosufficienza economica, condizione necessaria per Berlino a tutelarsi dall’ostilità internazionale di cui era vittima già dagli albori della rivoluzione, a causa del massiccio sabotaggio economico e della dichiarazione di guerra mercantile dichiarata al nuovo Reich dalla finanza ebraica internazionale.

La metodologia operativa che sottese la rinascita industriale tedesca prevedeva il ruolo guida del Governo e segnatamente del Ministero dell’economia nazionale nella gestione dei cartelli obbligatori che, istituiti con la legge del 15 luglio 1935, avrebbero regolamentato le dinamiche produttive del sistema industriale germanico. Tra questi «cartelli», in base a una visione più che mai organica dell’economia politica, era prevista la fattiva collaborazione e compensazione/compenetrazione reciproca nell’interesse del più alto fine comune della complessiva crescita economica nazionale; a tal fine rivestivano un ruolo fondamentale le funzioni ispettive e direttive del Ministero, il quale si avvaleva altresì della collaborazione di un Commissariato per il controllo sui prezzi le cui deliberazioni rivestivano valore fortemente limitante al libero arbitrio che taluni settori della produzione avrebbero potuto far proprio appunto in quanto «cartellizzati». Alle autorità ministeriali spetterà inoltre il ruolo di coordinamento e direzione delle nuove Camere economiche, agile e funzionale trait d’union posto in essere dal governo nazionalsocialista per coniugare il Volk al sistema produttivo, avente funzioni di controllo sull’operato delle imprese e di educazione politica al nuovo corso socialista e nazionale. Completeranno il quadro di sviluppo industriale una cospicua quota di partecipazioni statali e il lancio di un piano di potenziamento della rete dei trasporti, sia su gomma che su rotaia, tramite la realizzazione di grandi opere di viabilità pubblica.

La formazione dei lavoratori dello Stato all’onore sociale

Se il quadro complessivo del sistema economico e produttivo tedesco conferisce – pur se attraverso una trattazione sommaria – un senso di completezza, funzionalità e organicismo e desta meraviglia se rapportato alla effettiva brevità temporale della parabola politica del Terzo Reich nazionalsocialista, è solo attraverso lo studio delle politiche sociali e del lavoro che può comprendere in pieno la portata epocale e sovraumana di quella rivoluzione. Le strutture portanti del sistema sociale della nuova Germania affondano le proprie radici nella tradizione europea e declinano con verbo moderno il lascito socialista, nazionale e comunitario che questa ci ha tramandato, dopo aver spiccato il volo sulle ali dell’aquila romana e aver viaggiato per secoli attraverso le antiche sippe -famiglie, in senso ampio, che furono le prime istituzioni germaniche -, attraverso la civiltà carolingia, attraverso il socialismo prussiano fino a giungere al bagliore delle prime bandiere rosse, bianche e nere.

La più alta manifestazione della tutela nazionalsocialista sul lavoratore e sul cittadino del Reich è senza dubbio alcuno rappresentato dai tre nuovi istituti statuali denominati Commissariati del lavoro, Tribunali dell’onore sociale e Fronte del lavoro tedesco.

I Commissariati del lavoro avevano mansioni di vigilanza ed educazione popolare sul rispetto del nuovo spirito nazionalsocialista nell’ambito dei rapporti tra sistema produttivo e lavoratori, dirimevano i conflitti che sarebbero sorti, fissavano i parametri salariali; favorivano, insomma, lo sviluppo armonioso delle attività produttive e facevano riferimento diretto al Ministero dell’Economia. I Tribunali dell’onore sociale rappresentavano la quintessenza dell’istituzionalizzazione della rivoluzione nazionalsocialista: rivestivano mansioni ispettive, inquirenti e sanzionatone nei confronti degli eventuali soprusi dei datori di lavoro e delle imprese nei confronti dei lavoratori, e quindi del Volk, dello Stato. Avevano finanche il potere di ammonire, sanzionare e addirittura esautorare i dirigenti d’azienda che non si fossero adeguati al nuovo corso politico nazionalpopolare e che avessero tentato di restaurare istituti giuridici e giusla-voristici del precedente regime liberale. In tali tribunali, poderosa barriera eretta a difesa dell’onore sociale dei cittadini del Reich (e che nei tempi moderni avrebbero dovuto lavorare a pieno regime…) erano strutturalmente inseriti rappresentanti della Daf, il Fronte del lavoro tedesco, emanazione sindacale della Nsdap e custode della regola nazionalsocialista all’interno del mondo del lavoro nel suo complesso.

Associazione unificata al di sopra e contro il frazionismo sindacale liberale e il classismo sindacale marxista, aderente al Partito nazionalsocialista, la Deutsche Arbeitsfront poteva contare sulla totalitaria adesione di tutti i lavoratori del nuovo Reich (il numero di iscritti raggiunse i venticinque milioni e quattro milioni furono le imprese aderenti) e quello che rivestiva era un ruolo sociale di importanza tale da non poter essere paragonato a quello di nessuna altra struttura dello Stato e del partito. Tra le sue funzioni vi erano quelle di educazione dei lavoratori alla dottrina politica nazionalsocialista, l’educazione professionale, l’insegnamento dei mestieri, la protezione e la difesa dei lavoratori, il collocamento, l’assistenza giuridica, l’emissione di incentivi alla produzione e la gestione dello svago e del dopolavoro attraverso la sua branca denominata Kraft durch Freude (Forza attraverso la Gioia), allora la maggiore organizzazione di tale genere in tutto il mondo. Congiuntamente e parallelamente alla KdF esercitava le proprie funzioni il Nationalsozialistische Volkswohlfahrt (Nsv), l’Organizzazione nazionalsocialista per il benessere popolare, la struttura di assistenza e di soccorso sociale del Terzo Reich.

La reale natura dell’assistenzialismo nazionalsocialista è egregiamente descritta da uno dei suoi massimi dirigenti, Werner Reher: «In tutti i paesi civilizzati esistono delle organizzazioni per l’assistenza sociale che debbono la propria origine e il proprio mantenimento all’iniziativa privata. Alcune di queste operano sotto l’egida di confessioni religiose [...]. L’idea che ispira tutte loro scaturisce dal principio cristiano di amore per il prossimo [...]. Il desiderio e lo scopo di tutte queste iniziative è quello di favorire una politica sociale mediante la quale il disagio economico del singolo divenga perlomeno sopportabile. Il principio di base è, pertanto, che la povertà sia una condizione permanente nella quale una determinata classe sociale deve vivere. [...] Predicare e praticare questo principio indebolisce la resistenza morale di coloro che si trovano ad aver bisogno di aiuto». Spinta rivoluzionaria anche nell’assistenza sociale, dunque, secondo quanto prescritto dal governo dello Stato socialista del Reich germanico. Dove non c’era più posto per lo stucchevole piagnisteo dell’elemosina cristiana e dove gli altari del pietismo e della rassegnazione venivano finalmente soppiantati dalla fede nella comunità nazionale del Volk.

Tant’è che i risultati conseguiti dal Nsv non si fecero attendere a lungo e già nei primi anni, dopo il 1933, erano decine di migliaia le situazioni di difficoltà alleviate dalla solidarietà nazionale del popolo e del governo sotto forma di beni alimentari e di prima necessità nonché di investimenti al fine di eradicare le cause che possono aver visto protrarsi lo stato di indigenza dei cittadini in alcune zone del Reich. Numerose furono inoltre le iniziative volte all’incentivo alla natalità tramite il sostegno alla maternità (lavoro femminile, asili nido, assistenza), curate dalla sezione Mutter und Kind (Madre e figlio) dell’organizzazione di assistenza sociale nazionalsocialista.

Cos’accadde quindi nel cuore d’Europa nel bel mezzo del XX secolo? Nel pieno della sua notte buia, la «modernità» si fermò. La decadenza fu invertita. L’economia, in un clima continentale di follia mercantilistica e finanziaria, tornò a essere l’unica economia possibile: dallo Stato e dal popolo per lo Stato e per il popolo, per la nazione e per il socialismo. E il mondo tornò «ai ritmi di sempre».

È per questo motivo che le città della Germania e dell’Europa sono state rase al suolo in un mare di fuoco; è per questo motivo che milioni di tedeschi sono stati deliberatamente sterminati; questo è il motivo per cui a quel popolo -a perenne monito per l’Europa tutta – dopo aver distrutto le case, le scuole, le fabbriche, le strade, i ponti. Il Sistema ha imposto che distruggesse da solo la propria anima e procedesse a ritmi serrati verso l’estinzione e l’annullamento di sé. Ma il serpente si è morso la coda: questo motivo è lo stesso per cui l’immagine delle rivoluzioni fascista e nazionalsocialista è destinata a proiettarsi sul XXI secolo. 

domenica 17 giugno 2012

"RESTITUTIO AD INTEGRUM", Vocaboli antichi, lessici nuovi..



Uno dei segni del fatto, che il corso della storia ha rappresentato, fuor dal piano puramente materiale, tutt’altro che un progresso, è dato dalla povertà delle lingue moderne rispetto a molte lingue antiche. Non vi è una delle cosidette “lingue vive” occidentali che, per organicità, articolazione e plasticità regga il confronto, ad esempio, col latino antico o col sanscrito. Fra le lingue di ceppo europeo, forse il solo tedesco ha conservato qualcosa della struttura arcaica (ed è per questo che la lingua europea ha fama di essere “così difficile”), mentre la lingua inglese e quella dei popoli scandinavi hanno parimenti subito un processo di erosione e di appiattimento. In genere, si può dire che le lingue antiche cui accenniamo erano tridimensionali mentre quelle moderne sono bidimensionali. Il tempo ha agito anche qui in senso corrosivo; ha reso “pratiche” e “fluide” le parlantine a scapito, appunto, dell’organicità. È, questo, un riflesso di quanto si è verificato in molti altri domini della cultura e dell’esistenza.

Anche le parole hanno una loro storia e spesso il mutamento subito dai loro contenuti è un interessante indice barometrico di corrispondenti mutamenti della sensibilità generale e della visione del mondo. In particolare, sarebbe interessante fare un confronto fra il significato che alcune parole ebbero nell’antica lingua latina e quello che è proprio a termini corrispondenti, rimasti quasi uguali, della lingua italiana e anche spesso di altre lingue romanze. In genere, si può osservare una caduta di livello. Il senso più antico o è andato perduto, o sopravvive in forma residuale in qualche particolare eccezione o locuzione, senza più corrispondere a quello ormai generale e prevalente, o, ancora, appare del tutto distorto e di frequente banalizzato. Indicheremo qualche esempio.

Il caso più tipico e noto è forse costituito dalla parola virtus. La “virtù” in senso moderno non ha quasi nulla a che fare con la antica virtus. Virtus significava forza d’animo, coraggio, prodezza, saldezza virile. Si legava a vir, termine designante l’uomo come veramente tale, non come uomo in senso generico e naturalistico. La stessa parola nella lingua moderna ha assunto, invece, un senso essenzialmente moralistico, spessissimo associato a pregiudizi sessuali, tanto che riferendosi ad esso Vilfredo Pareto ha coniato il termine “virtuismo” per designare la morale puritana e sessuofoba borghese. In genere dicendo “persona virtuosa” oggi si pensa a cosa ben diversa da quel che, con una reiterazione assai efficace, potevano significare, ad esempio, espressioni come questa: vir virtute praeditus. E la differenza non di rado può trasformarsi quasi in una antitesi. Infatti un animo saldo, fiero, intrepido, eroico è il contrario di ciò che significa una persona virtuosa nel senso moralistico e conformistico moderno.

Il senso di virtus come forza efficiente si è mantenuto soltanto in certe locuzioni particolari moderne: la “virtù” di una pianta o di medicamento, in “virtù” di questa o quella cosa.

Honestus. Connesso con l’idea di honos, questo termine anticamente ebbe il significato prevalente di onorevole, nobile, di nobile rango. Che cosa, di ciò, si conserva nel termine moderno corrispondente? “Onesta” è la persona dabbene della società borghese, quella che non compie proprio cattive azioni. L’espressione “nato da onesti genitori” oggi ha perfino una sfumatura quasi ironica, mentre nella Roma antica era la designazione precisa di una nobiltà di nascita, cui spesso corrispondeva anche una nobiltà biologica. Vir honestia faciesignificava, infatti, uomo di prestante aspetto, allo stesso modo che nell’antica lingua sanscrita il termine arya comprendeva sia il senso di una persona degna di onore, sia quello di una nobiltà tanto interiore quanto del tipo somatico.

Gentilis, gentilitas. Oggi ognuno pensa alla persona cortese, affabile, di buone maniere. Il termine antico rimandava invece al concetto di gens, di stirpe, di razza, casta o lignaggio. Era “gentile”, romanamente, chi aveva le qualità che derivano da un lignaggio e da un sangue differenziato, le quali solo per riflesso possono determinare eventualmente un contegno di distaccata cortesia, cosa diversa dalle “maniere” che anche il parvenu può far proprie studiandosi il galateo – e diversa, anche, dalla vaga nozione moderna della gentilezza. E’ così che oggi pochi possono capire il senso pieno e più profondo di espressioni come “spirito gentile” e simili, rimaste come isolati prolungamenti in scrittori di altri tempi.

Genialitas. Chi è “geniale”, oggi? Un tipo prevalentemente individualistico, ricco di trovate originali, estroso. Come limite, si ha il genio nel campo artistico, il culto feticistico tributato al quale nella civiltà umanistica e borghese è noto, tanto che il genio, più che non l’eroe, l’asceta o l’aristocrate, è stato spesso considerato, in tale civiltà, come il più alto tipo umano. Il termine latino genialis allude invece a qualcosa di ben poco individualistico e “umanistico”. Esso deriva dalla parola genius, la quale originariamente designò la forza formatrice e generatrice interna, spirituale e mistica, di una data gente o di un dato sangue. Non è dunque azzardato affermare che le qualità geniali nel senso antico ebbero una certa relazione con quelle che, nell’accezione più alta, si possono dire appunto di “razza”. In opposto alla significazione moderna, l’elemento geniale si distingue da quello individualistico e arbitrario; si lega ad una radice profonda, obbedisce ad una necessità interiore per una aderenza più superpersonali di un sangue e di una gente, a quelle forze a cui, in ogni senso gentilizio, si connetteva, come è noto, anche una tradizione sacrale.

Pietas. Non occorre dire che cosa significhi oggi una “persona pietosa”. Si pensa ad un atteggiamento sentimentale più o meno umanitario, sensitivo – e “pietoso” è quasi sinonimo di compassionevole. Nell’antica lingua latina la pietas apparteneva invece al dominio del sacro, designava lo speciale rapporto in cui l’uomo romano stava con le divinità in primo luogo, poi con altre realtà legate al modo della Tradizione, compreso lo stesso Stato. Di fronte agli dèi, si trattava di un atteggiamento di calma, dignitosa venerazione: sentimento di appartenenza e, nel contempo, di rispetto, di memore riferimento, anche di dovere e di adesione, come potenziamento dello stesso sentimento suscitato dalla figura severa del pater familias (donde la pietas filialis). Come si è accennato, la pietas poteva manifestarsi anche nel campo politico: pietas in patriam significava fedeltà e dovere rispetto allo Stato e alla patria. In alcuni casi, la parola in quistione ammette anche il significato di iustitia. Colui che non conosce la pietas è anche l’ingiusto, quasi l’empio, è colui che disconosce il luogo che gli è proprio e che deve mantenere in un ordine superiore, divino e umano ad un tempo.

Innocentia. Anche questa parola evocava idee di chiarezza e diforza, nell’uso prevalente nell’antichità essa esprimeva la purezza d’animo, l’integrità, il disinteresse, la rettitudine. Non si esauriva nel significato negativo di non essere colpevole. Da essa esulava la sfumatura di banalità che oggi presenta l’espressione “spirito innocente”, sinonimo, quasi, di sempliciotto. In altre lingue romaniche, come nel francese, lo stesso termine, innocent, finisce con l’essere anche la designazione degli idioti (!!!), degli spiriti sfasati per nascita, deboli di mente e come stupefatti.

Patientia. Il significato moderno, rispetto a quello antico, accusa di nuovo uno smussamento e un depotenziamento. Oggi viene detto paziente chi non si arrabbia, chi non si irrita, chi tollera. Nella lingua latina la patientia designava una delle “virtù” primarie dell’uomo romano: comprendeva l’idea di una forza interna, di una incrollabilità, alludeva alla capacità di tener fermo, di aver l’animo non turbato di fronte a qualsiasi rovescio e a qualsiasi avversità. Per questo fu detto esser prorio, alla razza di Roma, il potere sia di compiere grandi cose, sia di “patire” vicende avverse di non minore entità (cfr. il noto detto di Livio: et facere et pati fortia romanum est). Il significato moderno risulta invece, rispetto all’altro, completamente innacquato. Come esempio di una natura tipicamente paziente viene indicato l’asino.

Humilitas. Con la religione venuta a predominare in Occidente l’umiltà è divenuta una ‘virtù’ in un senso poco romano, glorificata in opposto a quella tenuta di forza, di dignità, di calma consapevolezza, di cui si è detto più sopra. In Roma antica essa significò proprio il contrario di ognivirtus. Volle dire bassezza, spregevolezza, bassa condizione, abiezione, viltà, disonore – per cui, ad esempio potè dirsi che all’«umiltà» è da preferire la morte o l’esilio: humilitati vel exilium vel mortem anteponenda esse. Frequenti sono associazioni di idee, come mens humilis et prava, cioè mente bassa e malvagia. L’espressione humilitas causam dicentium si riferisce alla condizione di inferiorità e di colpa di coloro che sono portati dinanzi ad un tribunale. Anche qui s’incontra una interferenza con l’idea di razza o casta: humilis parentis natus significava essere nato dal popolo in senso dispregiativo, plebeo, in opposto alla nascita gentilizia, dunque con una sensibile divergenza rispetto al senso moderno di «umile condizione», specie considerando che oggi il criterio quasi esclusivo delle posizioni sociali è quello economico. In ogni caso, ad un Romano del buon tempo antico non sarebbe mai venuto in mente di concepire l’humilitas come una virtù, fino a trar vanto da essa e a predicarla. Quanto a certa «morale dell’umiltà», si potrebbe ricordare il rilievo di un imperatore romano, ossia che nulla vi è di più deprecabile dell’orgoglio di coloro che si dicono umili – senza che con questo si voglia dar valore, però, alla presunzione e all’arroganza.

Ingenium. Solo in parte il significato antico si è conservato nella parola moderna, ed è, di nuovo, il suo aspetto meno interessante. Ingenium nell’antica lingua latina indicava anche la perspicacia, l’acutezza di mente, la sagacia, l’avvedutezza – ma, in pari tempo, la parola rimandava al carattere, a ciò che in ognuno è organico, innato, veramente proprio. Vana ingenia poté, dunque, significare persone senza carattere; redire ad ingenium poté dire tornare alla propria natura, ad un modo di vita conforme a quel che veramente si è. Questo più importante significato è andato perduto nella parola moderna, a tal segno da dar luogo quasi ad una antitesi. Infatti se l’ingegno lo si intende in senso intellettualistico e dialettico, si ha qualcosa di evidentemente opposto al secondo significato incluso nel termine antico, che rimanda al carattere, ad uno stile conforme alla propria natura; è superficialità di contro a organicità, è moto irrequieto, brillante e inventivo della mente contro ad un rigoroso stile di pensiero aderente al proprio carattere.

Servitium. Il verbo servio, servire in latino ha anche il significato positivo di essere fedeli. Prevale però il significato negativo di essere servi; è quest’ultimo, in ogni caso, che sta alla base dell’altra parola, servitium, la quale indicava appunto la schiavitù, il servaggio, perché derivata da servus = schiavo. Nei tempi moderni la parola “servire” si è sempre più diffusa perdendo questa sfumatura negativa e avvilente, al punto che nei popoli soprattutto anglosassoni del “servizio sociale” si è potuto fare quasi l’oggetto di un’etica, dell’unica etica veramente moderna. E come non si è sentito l’assurdo di parlare di “lavoratori intellettuali”, del pari nel sovrano si poté vedere “il primo servitore della nazione”.

Anche a tale riguardo, è opportuno rilevare che, come i Romani non ci si presentano per nulla come una razza di “oziosi”, del pari essi ci offrono i più alti esempi di lealismo politico, di fedeltà allo Stato e ai capi. Ma il tono è assai diverso. La trasformazione dell’anima delle parole non è casuale. Che parole, come labor, servitium, otium, si siano imposte nell’uso corrente secondo il loro significato moderno, ciò è un indice sottile, ma eloquente, di uno spostamento di prospettive avvenuto non di certo nella direzione di vocazioni virili, aristocratiche, qualitative.

Stipendium. Occorre appena dire che cosa oggi significhi “stipendio”. Si pensa subito ad un impiegato, alla burocrazia, al famoso 27 del mese degli statali. Nella Roma antica il termine si riferiva invece quasi esclusivamente all’esercito. Stipendium merere significava militare, stare agli ordini dell’uno o dell’altro capo o condottiero. Emeritis stipendis significava: dopo aver compiuto il servizio militare. Homo nullius stipendii era colui che non aveva conosciuto la disciplina delle armi. Stipendis multa habere voleva dire poter vantare molte campagne, molte imprese di guerra. Anche qui, la differenza è di non poco momento.

Il significato completo di altre parole latine, come studium estudiosus, oggi non si mantiene più che in certe locuzioni speciali, come ad esempio “fare con studio”, intendendosi a bella posta o con una certa applicazione. Nel termine latino era presente l’idea di una intensività, di un calore, di un interesse vissuto, che nella parola moderna si è offuscato, perché da questa si è portati a pensare soprattutto a discipline intellettuali o scolastiche più o meno aride. Studium latinamente poteva dire perfino amore, desiderio, inclinazione viva. In re studium ponere significava prendere a cuore una cosa, interessarsene vivamente e attivamente. Studium bellandi voleva dire il piacere, l’amore del combattere. Homo agendi studiosus era colui che ama l’azione – riprendendo quel che si è detto circa labor, era l’antitesi di colui pel quale l’azione può significare soltanto “lavoro”. Che si può pensare, poi, oggi, di una espressione come studiosi Caesaris? Essa non voleva dire coloro che studiano Cesare, bensì coloro che lo seguono, che lo ammirano, che ne prendono le parti, che gli sono affezionati e fedeli.

Altre parole l’antico senso delle quali è andato perduto sono, ad esempio, docilitas, che non voleva dire docilità ma soprattutto buona disposizione o capacità di apprendere, di far proprio un insegnamento o principio; poi ingenuus, che non significava affatto “ingenuo” bensì uomo nato libeo, di condizione non servile. Che, latinamente, humanitas non significasse “umanità” nel senso democratico e sfaldato di oggi bensì cultura di sé, pienezza di vita e di esperienza – e ciò, originariamente, nemmeno in un senso “umanistico” all’Humboldt – è cosa più o meno risaputa. Un altro esempio non privo d’importanza: certus. Nell’antica lingua latina la nozione di certezza, di cosa certa, stava frequentemente in relazione con quella di una determinazione consapevole. Certum est mihi vuol dire: è mia ferma volontà. Certus gladio è colui che può affidarsi alla propria spada, che è sicuro di sapersene servire. Nota è la formula diebus certis, che non vuol dire “nei giorni certi” ma nei giorni fissati, stabiliti. Ciò potrebbe dare uno spunto per considerazioni circa una speciale concezione della certezza: concezione attiva, che la fa dipendere da ciò che rientr nel nostro potere determinante. In una certa misura, Gian Battista Vico nello stesso spirito enunciò la formula verum et factum converturtur – ma su tale via si doveva finire nelle divagazioni proprie al cosidetto “idealismo assoluto” neo-hegeliano. Porremo fine a queste osservazioni considerando il contenuto originario di tre antiche nozioni romane, quelle di fatum, felicitas e fortuna.

Fatum. Secondo l’accezione moderna più corrente il “fato” è una potenza cieca che incombe sugli uomini, che ad essi s’impone facendo si che si realizzi quel che essi meno vogliono, spingendoli eventualmente verso la tragedia e la sventura. Da qui il termine “fatalismo”, antitesi di ogni atteggiamento di libera, efficace iniziativa. Secondo la visione fatalistica del mondo il singolo non è nulla, la sua azione, malgrado ogni parvenza di libero arbitrio, o è predestinata, o è vana, e gli avvenimenti si svolgono obbedendo ad una obbedienza o ad una legge che lo trascende e che non lo tiene in alcun conto. “Fatale” è un aggettivo che, prevalentemente, ha un significato negativo: esito “fatale”, un incidente “fatale”, “l’ora fatale della morte”, e via dicendo.

Secondo la concezione antica, il fatum corrispondeva invece essenzialmente alla legge dello sviluppo del mondo, legge che, a sua volta, non veniva pensata cieca, irrazionale e automatica – “fatale” nel senso moderno – bensì come piena di senso e come procedente da una volontà intelligente, soprattutto da quella delle potenze olimpiche. Il fatum romano rimandava, come il *rta indoeuropeo, alla nozione del mondo come cosmos e ordine, in particolare a quella della storia come uno sviluppo di cause e di eventi riflettente significati superiori. Le stesse Moirai della Tradizione ellenica, benché presentassero alcuni aspetti malefici e “inferi” (che risentivano di culti pre-ellenici e pre-indoeuropei), appaiono spesso come personificazioni della legge intelligente e giusta che presiede al governo dell’Universo, in certe sue estrinsecazioni.

Però è soprattutto a Roma che la nozione di fatum acquista un particolare risalto. Ciò pel fatto che la civiltà romana, fra tutte quelle a carattere tradizionale e sacrale, si concentrò particolarmente sul piano dell’azione e della realtà storica. Perciò ad essa importò meno il conoscere l’ordine cosmico come una legge supertemporale e metafisica, che il conoscerlo come forza in atto nella realtà, come volere divino ordinatore di avvenimenti. Al che, romanamente, si collegava appunto il fatum. L’espressione viene dal verbo fari, dal quale deriva anche la parola fas, il diritto come legge divina. Così fatum allude alla “parola” – s’intende: alla parola rivelata, soprattutto a quella delle divinità olimpiche che dà a conoscere la norma giusta (fas) così come annuncia ciò che sta per avvenire. In relazione a questo secondo aspetto gli oracoli, nei quali un’arte speciale tradizionale cercava di cogliere in germe quel che corrispondeva a situazioni in via di realizzarsi, si chiamavano anche fata; erano, quasi, la parola rivelata della divinità.

Ciò premesso, per l’insieme che ora stiamo considerando devesi tener presente un rapporto dell’uomo con l’ordine generale del mondo che in Roma antica e nelle civiltà tradizionali in genere era assai diverso da quello che doveva successivamente predominare. Se l’idea di una legge universale e di un volere divino non annullavano la nozione della libertà umana, pure fu costante preoccupazione dell’uomo antico formare la sua azione e la sua vita in modo che esse continuassero l’ordine generale, rappresentassero, per così dire, un prolungamento o un ulteriore sviluppo di esso. Partendo dalla pietas, ossia, romanamente, dal riconoscimento e dalla venerazione delle forze divine, ci si pone come compito il presentire la direzione di queste forze divine nella storia in modo da potervi accordare opportunamente l’azione, tanto da renderla massimamente efficace e piena di significato. Da qui la parte importantissima che nel mondo romano, fin nel dominio della cosa pubblica e dell’arte militare, ebbero l’oracolo e l’auspicio. Fu ferma persuasione del Romano che le peggiori sciagure, comprese le disfatte militari, non fossero tanto dipese da errori, debolezze o deviazioni umane quanto dall’aver trascurato gli auspici, cioè riportando la cosa alla sua essenza, dell’aver agito disordinatamente e arbitrariamente, seguendo meri criteri umani, rompendo i contatti col mondo superiore (romanamente, ciò voleva dire aver agito senza religio, cioè senza collegamento), senza tener conto delle “direzioni di efficacia” e del “momento giusto” condizionanti un’azione “felice”. Si noti che la fortuna e la felicitas in Roma antica spesso appaiono soltanto come l’altra faccia di fatum, come la sua faccia propriamente positiva.. L’uomo, il capo o il popolo che usano la loro libertà per agire in aderenza con le forze divine delle cose, hanno successo, riescono, trionfano – e questo voleva dire, anticamente, essere “fortunato” ed essere “felice” (tale senso si è conservato in locuzioni, come “un’iniziativa felice”, una “mossa felice”, ecc.). Uno storico moderno, Franz Altheim, ha creduto di poter riconoscere in questo atteggiamento la causa effettiva della grandezza romana.

Per chiarire ulteriormente i rapporti fra “fato” e azione umana ci si può riferire alla tecnica moderna. Esistono certe leggi delle cose e dei fenomeni, che possono essere conosciute o ignorate, di cui si può tenere o non tenere conto. Di fronte ad esse l’uomo, in fondo, resta libero. Egli può anche agire in modo contrario a quel che tali leggi consiglierebbero, tanto da vedere la sua azione fallire ovvero tanto da raggiungere lo scopo solo con un grande sperpero di energie e superando ogni specie di difficoltà. La tecnica moderna corrisponde all’opposta possibilità; si cerca di conoscere il meglio possibile le leggi delle cose per poterle sfruttare e far sì che esse indichino la linea della minore resistenza e della maggiore efficacia per la realizzazione di un dato fine.

Non altrimenti stanno le cose su un piano in cui non si tratta più di leggi della materia ma di forze spirituali e “divine”. L’uomo antico riteneva cosa essenziale conoscere o, almeno, presentire tali forze, tanto da potersi formare un concetto delle condizioni propizie per una data azione e eventualmente di ciò che doveva fare o non doveva fare. Sfidare il fato, ad ergersi contro il fato, per lui non era cosa “prometeica” nel senso romantico esaltato dai moderni, ma semplicemente sciocca. Empietà (che vuol dire il contrario della pietas, ossia l’esser privo di religio, di “collegamento” e della comprensione rispettosa dell’ordine cosmico) per l’uomo antico era più o meno stupidità, infantilità, fatuità. Il paragone con la tecnica moderna è difettoso in un sol punto: pel fatto che le leggi della realtà storica non si presentavano come disanimatamente “oggettive”, affatto staccate dall’uomo e dalle sue finalità. Si potrebbe dire così: l’ordinamento oggettivo divino connesso al fato giunge fino ad un certo limite, oltre il quale esso cessa di essere determinante e diviene tendenziale (donde il noto detto dell’astrologia: astra inclinant non determinant). Qui prende inizio il mondo umano e storico in senso proprio. In via normale questo mondo dovrebbe continuare il precedente, la volontà umana dovrebbe, cioè, riprendere e portar oltre la volontà “divina”. Che ciò avvenga o no dipende essenzialmente dalla libertà: occorre che lo si voglia. Nel caso positivo quel che era tendenza si fa, attraverso l’azione umana, realtà. Il mondo umano si presenterà allora come una continuazione dell’ordine divino e la stessa storia andrà ad assumenre i tratti di una rivelazione e di una “storia sacra”; l’uomo non vale e non agisce più per se stesso bensì in una dignità divina e il tutto acquista, in un qualche modo, una dimensione superiore.

Si vede, così, che si tratta di cosa ben diversa dal “fatalismo”. Come un’azione contro il “fato” è sciocca e irrazionale, così un’azione armonizzata col fato è non solo efficace ma anche trasfigurante. Chi non tiene conto del fatum è quasi sempre destinato ad essere passivamente trasportato dagli eventi; chi lo conosce lo assume e vi si innesta viene invece guidato verso un superiore compimento, ricco di un significato non soltanto individuale. Tale è il senso del detto antico secondo il quale i fata “nolentem trahunt, volentem ducunt“.

Nel mondo romano antico e nell’antica storia romana sono numerosi gli episodi, le situazioni e le istituzioni dove viene in luce, appunto, il sentimento di incontri “fatidici” fra mondo umano e mondo divino, di forze dall’alto che scorrono nella storia e si manifestano attraverso quelle umane. Per limitarci ad un solo esempio, si può ricordare che “il culmine del culto romano di Giove era sostituito da un atto in cui il dio si fa presente nella sua qualità di vincitore in un uomo, nel trionfatore. Non è che Giove sia solo causa della vittoria, ma egli stesso è il vincitore; il trionfo non si celebra in suo onore ma egli stesso è il trionfatore. Per questa ragione l’imperatorriveste le insegne del dio” (KK. Kerényi, F. Altheim).

Attuare – talvolta prudentemente, talaltra audacemente – nell’azione e nell’esistenza il divino, questo fu un principio direttivo che l’antica romanità applico allo stesso ordine politico. Così è stata giustamente messa in rilievo la misura nella quale Roma ignorò il mito nel senso astratto e soltanto superstorico prevalente in alcune altre civiltà; in Roma il mito si fa storia, così come, a sua volta, la storia assume un aspetto “fatale”, si fa mito.

Da ciò procede una conseguenza importante. In questi casi, è una identità che, propriamente, si realizza. Non si tratta di una parola divina che può essere ascoltata o non ascoltata. Si tratta invece di un dispiegamento nel quale la volontà umana appare quella stessa delle forze superiori. Con il che si viene ad un concetto particolare, oggettivo, quasi diremmo trascendentale della libertà. Contrapponendomi al fatum posso bensì rivendicare per me un arbitrio, ma esso è sterile, è un puro “gesto” perché esso ben poco saprebbe incidere sulla trama della realtà. Quando, invece, ho fatto si che la mia volontà continui un ordinamento superiore, sia, cioè, l’organo per mezzo del quale questo ordinamento si realizza nella storia, ciò che io voglio in un simile stato di coincidenza o di sintonia è tale da tradursi eventualmente in un comando per forze oggettive che altrimenti non si sarebbero facilmente piegate o non avrebbero avuto riguardo per quel che gli uomini vogliono o sperano.

Ora, ci si può chiedere: come è che si è giunti alla nozione moderna del fato come una potenza oscura e cieca? Come tanti altri, un tale mutamento di significato è lungi dall’essere casuale, esso riflette un mutamento di livello interiore e si spiega, essenzialmente, con l’avvento dell’individualismo e dell’umanismo inteso in un senso generale, cioè con riferimento ad una civiltà e ad una visione del mondo basate unicamente su ciò che è umano e terrestre. È evidente che, una volta prodottasi questa scissione, al luogo di un ordinamento intelligibile del mondo doveva essere sentito il potere di qualcosa di oscuro e di estraneo. Il “fato” divenne allora il simbolo generale di tutte quelle forze più profonde in atto, sulle quali l’uomo, malgrado il suo dominio sul mondo fisico, può ben poco, perché non le comprende più e si è tagliato fuori di esse, ed anche di forze che, col suo stesso atteggiamento, ha liberato e ha rese sovrane in dati dominî dell’esistenza.

Questa è solo un’idea dell’importanza e dell’interesse che avrebbe una illuminata filologia perché, come si disse, le parole hanno una loro anima e una loro vita, tanto che anche a tale riguardo il rifarsi alle origini può spesso dischiudere prospettive insospettate. Il lavoro, poi, sarebbe ancor più fecondo ove non ci si limitasse a retrocedere dalle lingue “romaniche” all’antica lingua latina, ma la stessa lingua latina venisse riportata al più vasto, comune ceppo delle lingue indoeuropee, del quale essa, nei suoi elementi fondamentali, è stata una differenziazione.



tratto da "Imperialismo pagano" di Julius Evola















sabato 9 giugno 2012

La "COMUNITà GUERRIERA"




"Ogni generazione rappresenta un’epoca. Allo scoppiare di questa guerra noi giovani rappresentavamo la generazione del futuro. Il destino ha voluto che sui nostri volti s’incidessero i duri tratti della guerra. È quindi da meravigliarsi se il nostro più ardente desiderio è che il volto della generazione veniente abbia la serena espressione della  pace?
La generazione di domani sarà europea o non esisterà. La legge cui essa ubbidisce è di fare dell’uomo l’assoluto padrone della tecnica, il dominatore della materia e della macchina assunte ad idoli dell’umanità per malintesi ed abusi. Gli elementi scatenati dalla conflagrazione mondiale devono venire nuovamente assoggettati all’uomo.
Questo convincimento si è radicato nella gioventù che sta maturandosi. Essa crede nella dignità propria delI’essere umano. Lettere di combattenti lo esprimono incessantemente. Perché sui campi di battaglia di questa guerra di masse è la personalità che alla fine trionfa. Gli agonali del lavoro che hanno luogo ogni anno fra gli apprendisti di tutte le officine germaniche, non sono forse una significativa manifestazione di uguali sentimenti, di uguali passioni e intenti che mirano alla dedizione di tutto se stesso per un avvenire più  fulgido e per  una vita migliore?
Altra volta è stato detto che dal volto della gioventù irradia la forza della futura generazione. Chi confronta le fotografie dei vecchi album con quelle di oggi si accorge della trasformazione avvenuta in questo campo, benché inosservata per lungo tempo. Nei visi di allora si legge I’idealismo, lo spirito di sacrificio, la tenacia e la pazienza — in quelli di oggi qualche cosa di più; essi riflettono un incrollabile consapevolezza, sicura di sè e fiduciosa dell’avvenire. Ciò vale tanto per le ragazze come per i ragazzi. A 5 od a 25 anni, se si trastullano ancora o si dedicano ai loro lavori, i loro limpidi sguardi che nemmeno le avversità della presente guerra poterono offuscare, ci attestano che la vita è più forte della morte. Essi hanno la visione di una vita in cui i beni della terra rappresentano una fortuna accessibile a tutti. Quando questa meta per cui fanaticamente ci battiamo sarà divenuta realtà, le generazioni del futuro sapranno, se sarà necessario, anche difendere la conseguita vittoria con eguale fanatismo."

domenica 3 giugno 2012

da "CONVERSAZIONI A TAVOLA DI HITLER"



"Ho totalmente perduto di vista le organizzazioni del Partito. Quando mi trovo in presenza di questa o quella di tali realizzazioni, mi dico: “Santo cielo, che sviluppo!”

Perciò non è giusto che, per esempio, mi si dica: “Solo grazie a voi,! mio Fuhrer, il Gauleiter Tale ha potuto fare quel che ha fatto”. No, dipende essenzialmente dagli uomini che sono all’opera. Me ne accorgo in questo momento a proposito dei problemi militari. Tutto dipende dagli uomini. Senza di loro non potrei far niente.

Oggi alcuni piccoli popoli dispongono di un maggior numero di uomini capaci che non l’Impero Britannico.

Quante volte ho sentito dire nel Partito che un dato posto doveva essere affidato a un altro. Disgraziatamente potevo rispondere soli questo: “Ma con chi dunque sostituirete il titolare?” Sono sempre disposto a sostituire un uomo insufficiente con un altro più qualificato. In effetti, nonostante i vincoli di fedeltà, ciò che in definitiva è decisivo è la qualità di chi assume delle responsabilità.

Una cosa è certa: che Streicher non è stato mai sostituito nonostante tutte le sue debolezze, è un uomo che ha del temperamento. Se vogliamo dire la verità, dobbiamo riconoscere che senza Julius Streicheir Norimberga non sarebbe stata conquistata al nazionalsocialismo. Egli si è messo a mia disposizione in un tempo in cui altri esitavano a farlo, e ha conquistato interamente la città dei nostri congressi. Questo è un merito indimenticabile.

Più di una volta Dietrich Eckart mi ha detto che Streicher era un maestro di scuola e che inoltre era pazzo da parecchi punti di vista. Ma aggiungeva che non si può volere il trionfo del nazionalsocialismo senza avallare uno Streicher. Nonostante tutto. Eckart gli voleva molto bene.

A Streicher si rimprovera lo Sturmer. Contrariamente a quanto si afferma, egli ha idealizzato l’Ebreo. L’Ebreo è molto più ignobile, più feroce, più diabolico di quanto non lo abbia dipinto Streicher.

Non è un delitto parlare pubblicamente degli affari di Stato, perché lo Staio ha bisogno dell’approvazione del popolo. Certo, ci sono dei casi nei quali è inopportuno parlare di certe cose. Chi se ne rende colpevole commette generalmente soltanto una colpa contro la disciplina.

Una volta Frick mi ha detto che Streicher era completamente svalorizzato a Norimberga. Sono andato a Norimberga per tentare di farmi un’opinione. Streicher entra nella sala: è un uragano di entusiasmo!

Ho assistito una volta a un’assemblea di donne. Ciò avveniva a Norimberga, e mi avevano avvertito che Elsbeth Zander era in contestazione molto seria con Streicher. Mi si chiedeva d’intervenire. La riunione aveva luogo al Velodromo d’Ercole. Un entusiasmo indescrivibile accolse Streicher. I più vecchi aderenti del Partito presero tutti la parola in favore di Streicher, e contro Elsbeth Zander. Non mi restava che ritirarmi.

Inutile dire che l’organizzazione del Gau era quanto mai imperfetta. Se prendo come criterio un funzionario dell’Amministrazione, il confronto non è certamente a vantaggio di Streicher. Ma devo ricordarmi che nel 1919 non è stato un funzionario che ha conquistato Norimberga per me.

Tutto sommato, sono stati proprio i Gauleiter a chiedermi di essere indulgente nei confronti di Streicher. Nel suo caso non c’è proporzione tra le colpe commesse e i meriti riconosciuti, che sono strepitosi.

Come sempre, bisogna chercher la femme!

Chi dunque sfugge alla critica? Io stesso, se oggi scomparissi, non ignoro che verrà un momento, forse tra cent’anni, che mi si attaccherà violentemente. La storia non farà eccezione in mio favore. Ma che importa? Bastano cent’anni di più perché tali ombre siano cancellate. Non me ne preoccupo, vado avanti. Il caso Streicher è una tragedia. All’origine del conflitto c’è l’odio che si giurano due donne.

Comunque, devo fare una constatazione, e cioè che Streicher è insostituibile. Il suo nome è uncinato nella memoria dei Norimberghesi. Non già che egli ritorni, ma devo rendergli giustizia. Se un giorno scriverò le mie memorie, dovrò riconoscere che quest’uomo ha lottato come un bufalo per la nostra causa. La conquista della Franconia è opera sua.

Mi rimorde la coscienza quando so di non essere stato perfettamente giusto nei confronti di qualcuno. A Norimberga vado sempre con un senso di amarezza. Non posso fare a meno di pensare che a paragone di tanti meriti le ragioni che hanno motivato la revoca di Streicher sono veramente esigue.

Tutto ciò che si dice della sua pretesa malattia è falso. Streicher ha avuto una sola malattia: il demone di mezzogiorno.

Sotto una forma o un’altra, bisognerà trovare una soluzione. Non considero la possibilità di tenere a Norimberga un congresso dal quale l’uomo che ha dato Norimberga al Partito venga tenuto lontano.

Posso mettere un mediocre al posto di Streicher. Egli amministrerà alla perfezione il Gau fin quando le condizioni saranno normali. Ma se sopraggiunge una catastrofe, il mediocre si liquefa!

Il miglior consiglio che posso dare ai miei successori è di essere leali in un caso come questo. La signora Streicher è fuori causa. La signora Liebel è una donna ambiziosa.

Probabilmente, nessuno di noi è perfettamente “normale”. Altrimenti passeremmo le giornate al Caffè del Commercio. I cattolici, i borghesi, mi hanno tutti tacciato di follia perché ai loro occhi l’uomo normale è quello che, ogni sera, vuota i suoi tre boccali di birra: “Perché si agita tanto? Ecco la prova che è pazzo!” Quanti di noi dalle proprie famiglie fummo considerati ragazzi perduti!

Se esamino le colpe che si rimproverano a Streicher. allora posso dirmi che nessun grand’uomo reggerebbe a questo vaglio. Richard Wagner è stato attaccato perché indossava dei pigiami di seta: “Prodigalità, lusso insensato, sconoscenza del valore del danaro. Quest’uomo è pazzo!” Quanto a me, bastava già che mi si potesse rimproverare di affidare del danaro a uno qualunque e senza esser sicuro che quel danaro fosse ben investito. Chi vuol uccidere il proprio cane, dice che ha la rabbia! Che mi si giudichi in tal modo, mi è del tutto indifferente. Ma avrei vergogna di adottare, per giudicare altri, simili criteri.

Tutte le sanzioni sono giustificate quando c’è una vera colpa: tradimento del Movimento, per esempio. Ma quando un uomo si è sbagliato in buona fede? Non si ha il diritto di fotografare un uomo sorpreso nell’intimità. È troppo facile ridicolizzare qualcuno. Che ciascuno si domandi che cosa farebbe se avesse la disgrazia di essere fotografato a sua insaputa in una situazione delicata. Le fotografie in questione sono state prese da una casa di fronte. Ecco dei procedimenti disgustosi, e io ho proibito l’utilizzazione di quelle fotografie.

Non è equo esigere da un uomo più che non possa dare. Streicher non ha le doti di un grande amministratore. Avrei affidato la direzione di un grande giornale a Dietrich Eckart? Dal punto di vista finanziario, vi sarebbe regnato un disordine spaventevole. Un giorno il giornale sarebbe uscito, l’indomani no. Se aveva un maiale da spartire, Eckart ne prometteva a destra e a sinistra e distribuiva almeno ottanta prosciutti. Questi uomini sono fatti così, ma senza di loro non si può intraprendere niente.

Neanche io ho le capacità di un grande amministratore, ma ho saputo circondarmi degli uomini che occorrevano.

Per esempio, Dietrich Eckart non avrebbe potuto dirigere l’Istituto Nazionale delle Arti e delle Lettere. Il che non impedisce che i suoi meriti siano insuperabili. Sarebbe come pretendere che io mi dedicassi all’agricoltura. Ne sono assolutamente incapace. Un giorno ho avuto tra le mani un mucchio di lettere di Severing. Se le avessimo pubblicate, egli sarebbe stato annientato. Erano effusioni di alcova. Ho detto a Goebbels: “Non abbiamo il diritto di servirci di questa roba”. La lettura di quelle lettere mi aveva reso Severing piuttosto simpatico ed è stata forse questa una delle pigioni per le quali, in seguito, non l’ho perseguitato.

Ho anche, negli archivi dello Stato, le fotografie di Mathilde von Kemnitz. Ne ho proibito la pubblicazione.

Non sono del parere che un uomo debba morir di fame perché è stato mio avversario. Se fosse un avversario ignobile, allora lo spedirei in campo di concentramento! Ma se non si tratta di un prevaricatore, lo lascio andare, e mi preoccupo perché egli abbia di che vivere. È stato così che ho aiutato Gustav e molti altri. Di ritorno dall’Italia, ho anche aumentato le loro pensioni, dicendomi: “Dio sia lodato, grazie a costoro noi siamo stati sbarazzati di quella marmaglia aristocratica che continua a infierire in Italia!” Salvo errore da pane mia, la loro pensione è attualmente di ottocento marchi.

Cià che tuttavia non ho potuto ammettere è che facessero una dichiarazione in mio favore, al che Severing, per esempio, si è detto più che disposto. Avrei avuto l’aria di averli comprati. Di uno di loro, so che pensando a noi ha detto: “Nel cammino del socialismo, i risultati superano tutto ciò che avevamo sognato”.

Lo stesso Thaelmann è trattato molto bene in campo di concentramento. Vi dispone di una casetta tutta per lui. Torgler è stato liberato. Lavora in pace a un’opera sul socialismo nel secolo XIX. Sono convinto che ha fatto bruciare il Reichstag, ma non posso provarlo. Personalmente, non ho niente da rimproverargli. D’altronde, si è completamente calmato. Peccato che io non abbia incontrato quest’uomo dieci anni prima! È, per natura, un uomo intelligente.

Ecco perché è insensato, da parte della Spagna, perseguitare degli autentici Falangisti.

Grazie a Dio, ho sempre evitato di perseguitare i miei nemici."

Adolf Hitler,notte dal 28 al 29 dicembre 1941