venerdì 18 maggio 2012

La più antica Roma





I monti Albani costituivano la roccaforte naturale dell’antico Lazio, che aveva il suo centro nel monte Cavo. Roma era situata al margine settentrionale, ma sia la città che la zona circostante assunsero sin dalle origini una posizione di rilievo. Entrambe affacciavano sul Tevere, fiume che separava il territorio laziale da quello etrusco. Il Gianicolo costituiva la testa di ponte. Dopo pochi chilometri il fiume raggiungeva il mare, mentre risalendo il corso d’acqua sia del Tevere che dell’Aniene si raggiungevano Curi e Tibur, località di origine dei Sabini. Questa posizione particolare di Roma ebbe notevole importanza per la sua storia.

Secondo la tradizione romana, all’epoca di Romolo i Romani si fusero con i Sabini di Tito Tazio creando un’unica popolazione. La ricerca archeologica ha confermato questo dato. E’ attestata infatti la presenza di un insediamento latino sul Palatino differenziato dagli insediamenti sabini sull’Esquilino, Viminale e Quirinale. I Latini cremavano i loro morti e ne riponevano le ceneri in urne a forma di vaso o di capanna; i Sabini invece collocavano i corpi intatti in bare ricavate da alberi oppure sotto lastre di pietra. Due civiltà convivevano pertanto sul suolo di Roma: la civiltà villanoviana dell’Italia centrale e quella adriatica. Quest’ultima mostra di avere legami con le civiltà del ferro danubiane e balcaniche, con propaggini ad Oriente in Asia Minore. Portatori della civiltà adriatica in tempi storici furono principalmente gli Illiri. Le popolazioni osco-umbre nella penisola italica furono spinte appunto da genti il illiriche verso nuovi insediamenti. Mutuarono dai loro vicini illiri la pratica di seppellire i morti in tombe a fossa, tradizione che mantennero anche sul territorio romano. Alla mescolanza delle popolazioni corrisponde il quadro linguistico. Il latino dell’urbe vede la sostituzione, all’interno della parola, della b e della d con f, di qu e g con p e b (scrofa, infernus, lupus, bos). Caratteristiche queste che appartengono ai gruppi osco-umbri.

La tradizione colloca la fondazione di Roma nell’VIII secolo. In effetti nessun ritrovamento risale ad epoca più antica. Alla fine del secolo successivo si ha l’evento decisivo: la fusione di insediamenti latini e sabini, con la coesistenza di sepolture a cremazione e a inumazione poste all’interno del limite urbano. Come testimonianza di ciò abbiamo la festa del Settimonzio, che derivò dai sette montes della riunita comunità urbana, e in questa stessa forma, segno dell’attaccamento romano alla tradizione, la festa fu celebrata sino in epoca storica. A ciò si aggiunge l’ubicazione della necropoli al margine di quello che sarebbe stato il Foro. Essa mostra nel suo strato superiore i pozzi rotondi dei cremati, assieme a tombe costituite da alberi, o da fosse coperte da lastre di pietra, degli inumati. Questo cimitero, originariamente appartenente agli incineranti del Palatino, accolse successivamente gli inumanti dei Monti. Gli abitanti del Palatino non poterono cedere la loro antica zona di sepoltura ai vicini Sabini senza un chiaro atto giuridico.

I diversi insediamenti romani sorsero poi in base a un trattato, in base al quale incominciarono a fondersi in una comunità.

Contemporaneamente si manifestano a Roma i primi influssi etruschi. Una tomba di guerriero dell’Esquilino ha una certa similarità con le tombe dei principi etruschi del VII secolo. Nel Foro, non  lontano dal tempio di Saturno, su un vaso a bucchero si è trovata una iscrizione etrusca arcaica. Le colline della più antica Roma recavano nomi etruschi o almeno composti alla maniera etrusca, e lo stesso vale per il nome Roma e per quello del mitico fondatore Romolo.

Non si può infine tralasciare la presenza a Roma di oggetti greci d’importazione. Vasellame proto-corinzio è stato trovato nella necropoli dell’Esquilino, nello strato più recente degli scavi del Foro ed in una fontana vicina al tempio di Vesta. Proprio in questi antichi strati della città era quindi presente l’elemento greco. Quel che vale per i reperti archeologici vale anche per la religione, come si evidenzia attraverso il più antico calendario festivo. A Roma, come fra gli Etruschi ed un po’ in tutta Italia, l’elemento greco costituì un elemento originale essenziale nella formazione di quelle culture.

Il calendario festivo romano è contenuto in una serie di redazioni epigrafiche, la più antica delle quali risale ad epoca pre-cesarea. La maggior parte di questi calendari viene collocata nel periodo corrente tra la fondazione del principato e l’impero di Claudio. Un testo base scritto in grandi caratteri capitali di colore nero si distacca da aggiunte e note successive in caratteri più piccoli e rossi. Il calendario nasce nel VI secolo e ci riporta l’elenco delle feste e degli eventi cultuali della Roma arcaica. La sua redazione coincide con l’installazione dell’ultimo insediamento sabino sul suolo romano, quello del Quirinale, nell’ambito della nuova comunità.

L’unione dei diversi insediamenti sul suolo romano ebbe inizio con la fusione fra la comunità palatina e quella sabina dell’Esquilino. Come prima accennato, la festa del Septimontium rappresentò il corrispettivo cultuale di questa unione. Veniva celebrata l’11 dicembre, ed in tale occasione si sacrificava ai sette montes. Ossia: Palatium, Cermalus, le due cime del Palatino, la Velia, posta subito a nord dei primi; Fugutal, Cispius e Oppius, cime dell’Esquilino; infine il Caelius a sud. A questi sette colli si aggiunge, in base alle fonti, un altro nome: la Subura, valle situata all’interno del Septimontium, tra le Carinae ed il Fugutal, che però in quanto valle non fu contata tra i montes.

Il più antico calendario mostra lo sviluppo determinato dalla fusione di questi insediamenti. Tra gli Dèi che vengono nominati in questo sistema festivo, spicca Quirino. Ciò significa che la collina che sin dall’antichità era sua sede e che pertanto prendeva il nome del dio – il collis Quirinalis – apparteneva allora all’ambito urbano. Anche Sol Indiges aveva il suo luogo di culto sulla stessa collina. La gens Aurelia, che dedicava un proprio culto al dio, era di origine sabina; il che conferma che l’insediamento del Quirinale e quello dell’Esquilino appartenevano ai Sabini. Altra prova è fornita dal nome degli Aureli, che deriva da ausel (Auselii), denominazione sabina del sole.

Il più antico calendario festivo corrisponde pertanto allo stadio dello sviluppo urbano, allorché il Quirinale si era aggiunto all’originario Septimontium. Il Campidoglio si trovava ancora al di fuori dei confini della città, per cui tale calendario ignora la fondazione del tempio capitolino. L’inserimento del Campidoglio nella cerchia urbana avvenne in tempo successivo, allorché il ruscello del Foro come la pianura acquitrinosa che separavano il Palatino e la Velia dal colle capitolino, furono prosciugati. La costruzione della cloaca massima, che permise tale prosciugamento, fu realizzata verso la fine della monarchia.

C’è un precedente rispetto alla collina del Campidoglio, il Capitolium vetus, ugualmente consacrato alla triade Iuppiter, Iuno e Minerva. Anche il più antico Campidoglio non è inserito nel calendario festivo arcaico, per cui è posteriore alla sua redazione. Non si trovava però sul colle capitolino, ma sul Quirinale. Si deduce pertanto che l’istituzione della triade avvenne in un’epoca in cui soltanto il Quirinale, ma non ancora il Campidoglio, era inserito nel limite urbano.

Prima dell’erezione del tempio capitolino e dell’inserimento del colle e del Foro sottostante nel confine urbano, questo comprendeva il solo Septimonzio ed il Quirinale. Questa è l’immagine della città che appare nel più antico calendario. Con ciò si ha la possibilità di una datazione. Fin quando il Foro era paludoso, le sue rive venivano utilizzate soltanto come area per una necropoli. Tale situazione durò, in base ai reperti ivi ritrovati, fino ai primi decenni del VI secolo. Solo successivamente il Foro potè essere utilizzato come luogo di riunioni, per attività pubbliche e come luogo di mercato. Il rinnovamento avvenne quindi verso la fine del secolo, datazione confermata dai resti che testimoniano l’inizio della costruzione del tempio sul Campidoglio sotto Tarquinio Prisco, e quella della cloaca massima sotto Tarquinio il Superbo. Per cui l’ampliamento significativo della città è da collocarsi tra la metà e la fine del VI secolo. Il calendario rispecchia la situazione urbana precedente a tale sviluppo.

Ancora più agevole diviene la datazione delle fasi di sviluppo storico dell’urbe. Se il Capitolium vetus sul Quirinale presuppone la stessa realtà urbana individuata nel calendario, ma non è menzionato dal calendario stesso, vuol dire che la fondazione del tempio si colloca alla fine del periodo in cui il Quirinale fu inserito nella  cerchia  urbana,  mentre  il  calendario  si  colloca  verso l’inizio di questa fase. Risulta allora logico dedurre che il calendario presentasse un sistema festivo fondamentalmente per la comunità dopo l’unione del Septimonzio e del Quirinale.

Dovette essere una circostanza particolare a produrre un simile sistema festivo e cultuale dal carattere globale, circostanza da ricercarsi nell’inserimento dell’ultimo insediamento ancora indipendente nell’ambito urbano. In quel momento si dovettero affermare quelle norme che d’allora in poi sarebbero valse per la nuova comunità. Non sorprende che alla stessa epoca risalga la formazione di un sistema politico stabile. Anche la creazione delle curie avvenne in quegli anni in cui le varie comunità si unirono sul suolo romano. Con ciò si delinea da un punto di vista cultuale e politico la struttura della Roma arcaica.

In realtà il calendario si presenta come un sistema ordinato, di cui non si può misconoscere il riferimento ad una comunità di una certa importanza. La sequenza  e la ripartizione delle feste, ordinate in gruppi, mostra di tener conto di una tale comunità.

Il raggruppamento delle festività si evidenzia soprattutto a marzo ed ottobre. Il mese di marzo prende la sua denominazione dal dio Marte, e nel suo corso vengono celebrate le feste del dio, a partire esattamente dalla fine di febbraio (Equirra, 27 febbraio) e durante il mese successivo. I giorni dedicati a Marte sono infatti il 1° ed il 14 (Equirra), il 17 e 19 (Quinquatrus), il 23 (Tubilustrium). A queste celebrazioni corrispondono nel mese di ottobre, l’Equus October (15 ottobre), in cui viene sacrificato il cavallo di destra del carro vincitore della corsa, e l’Armilustrium (giorno 19): esattamente la relazione si sviluppa fra l’Equus October e le Equirra, tra l’Armilustrium e il Quinquatrus. Esposizione delle armi e dei corni di guerra, come la corsa celebrativa delle bighe, coincidono con la partenza dell’esercito per la guerra in primavera e col suo ritorno in autunno. L’originaria propensione alla guerra della comunità trovava espressione nel culto. Se i Fontinalia venivano subito prima del sacrificio del “cavallo d’ottobre”, ciò vuol dire che doveva esserci un nesso tra cavallo e fonte.

Strettamente connessi sono febbraio e maggio, entrambi consacrati ai morti. In conformità di ciò maggio prende il suo nome dalla divinità tellurica Maia, la “grande”, appellativo che si ripropone anche nel greco Megale e nell’antico indiano mahi. La tradizione romana collega febbraio con il dio dei morti Februus, omologato con Dispater. In questo mese si celebrano i Parentalia per la durata di nove giorni; il solo giorno conclusivo della celebrazione (21) veniva indicato come feriae publicae ed era quindi l’unico ad essere contrassegnato nel calendario. Nel mezzo dei Parentalia cadevano i Lupercalia, festa di Fauno, in cui il popolo veniva purificato di tutti i mali e i pericoli da cui era minacciato durante questo periodo dei morti. A maggio invece si celebravano i Lemuria (9,11, e 13) e l’Agonium di Vedove (21), entrambe celebrazioni dei morti. Anche il Tubilustrium di Vulcano, affine cultuale di Maia, si colloca per tale affinità e per la tuba nell’ambito dei culti dei morti (la tromba svolge un ruolo significativo nel culto).

A luglio cadono i Neptunalia (23) nel mezzo di un ciclo festivo dal carattere omogeneo comprendente anche i Lucaria (19 e 21) ed i Furrinalia (25). Negli stessi giorni d’agosto si colloca un altro gruppo di celebrazioni che si raggruppano attorno ai Volcanalia del 23. Accanto al giorno dedicato al dio della terra e del focolare, abbiamo la festa della raccolta dell’uva (Vinalia, il 19) e la celebrazione del Dio Conso con cui si pone in relazione Ops (21 e 25): sono tutte celebrazioni aventi a che fare col raccolto e con i frutti della terra.

Le feste di aprile fanno ugualmente riferimento alla vegetazione, ma sono legate ai diversi aspetti sotto i quali si presenta la madre terra (Fordicidia, 15; Cerealia, 19). I Vinalia del 23, a differenza di quelli di agosto, sono contrassegnati come priora e corrispondono ai Pithoigia attici: era il giorno in cui per la prima volta si provava il vino nuovo. Con i Robigalia (25) si teneva la ruggine lontana dai campi. Nell’ultimo giorno del mese o all’inizio di maggio si celebravano i Floralia, che probabilmente all’epoca della redazione del calendario più antico era una festa mobile (feriae conceptivae).

Dicembre è caratterizzato da una serie di celebrazioni che si rivolgono ancora alla terra ed alla sua vegetazione. I Consualia (giorno 15) sono collegati con un giorno dedicato ad Ops (giorno 19). Diva Angerona, celebrata il 21, era probabilmente una divinità ctonia ed i Larentalia (giorno 23), come i Compitalia (feriae conceptivae), appartenevano al medesimo ordine. In questi due giorni si celebravano i Lari, ma nel primo si celebrava in particolare la dea Larentina. Questa si presentava anche come madre del Lari e come tale si chiamava Mania; doveva pertanto essere alquanto vicina ai Mani.

Ancora una parola su gennaio. Prende il suo nome da Ianus, il dio di ogni inizio, la cui festa cade il 9 del mese. Subito dopo vengono i Carmentalia (11 e 15). La dea della nascita si pone in connessione con Giano, visto che ogni nascita è anche un inizio. In connessione con ciò il più antico tempio di Giano sorgeva dinanzi alla porta Carmentalis. Anche la festa del raccolto, le feriae sementivae era celebrata a gennaio. Anche in questo caso si trattava di un inizio, questa volta di quel che nasceva dalla terra.

Tali dati dovrebbero essere sufficienti a mostrare come il calendario costituisse un sistema ordinato, uno schema unitario delle usanze festive, avente alla base una concezione omogenea. Non si può non riconoscere in esso una consapevole volontà creativa. Non si può sapere però se si trettò del prodotto di un gruppo o piuttosto di un singolo. Il solo dato concreto è che tale sistema apparve in un preciso momento storico evidenziando uno scopo non meno preciso.

Nonostante la struttura unitaria, si notano nel calendario strati più antichi. Essi fanni supporre che il sistema conchiuso e stabile che ci è pervenuto attraverso il calendario arcaico, sia invece il risultato di un lento sviluppo.

Si nota inoltre che una serie di divinità proveniva dalla vicina Etruria o dalla Grecia. Ma anche se si prescinde da queste divinità straniere, quel che resta non appare assolutamente omogeneo. Portuno originariamente costituiva una epiclesi di Giano, e solo successivamente divenne una divinità autonoma. Si riconosce pertanto che in uno stadio precedente la redazione del calendario si verificò la dissociazione di un dio da un ambito divino dal carattere omogeneo. Anche in ciò si ricorda che una serie di feste non assume il nome di divinità, come invece Opalia, Larentalia, Consualia, Furrinalia, ma prende la sua denominazione dal carattere specifico dell’azione cultuale. Agonium ad esempio, indica originariamente soltanto che si compiva  un sacrificio. Il che spiega come mai i giorni in cui cade l’Agonium (9 gennaio, 17 marzo, 21 maggio e 11 dicembre) appartengano a quattro diverse divinità (Giano, Marte, Vediove e Sole Indigete). Anche il Quinquatrus del 19 marzo indica soltanto una data: il quinto giorno scuro dopo la luna piena. Dello stesso genere sono Armilustrium, Equirra, Poplifugium, Regifugium, Tubilustrium ed Equus October, che prende il nome dal sacrificio del cavallo. Anche qui, con la dovuta preacauzione, si potrebbe scorgere la coesistenza di strati differenti.

Anche la storia della città ci porta a ulteriori considerazioni. Se Roma era nata dall’unione di diversi gruppi, sorge la naturale domanda se le entità dell’antico calendario non siano da attribuirsi ciascuna ad uno specifico insediamento.

Palatium e Palatino presero il nome da Pales. Ciò indica che era una divinità d’origine latina, legata pertanto alla tradizione di questo popolo di cremare i cadaveri. La stessa cosa vale per Vulcano, il cui il più antico luogo di culto, il Volcanal, si trovava all’interno delle fosse crematorie del Foro. L’altare di Conso si trovava nella vallis Murcia a sud-ovest del Palatino, dove successivamente venne costruito il Circo Massimo. La collocazione era sotterranea e il suo altare era ricoperto di terra. Ciò ricorda la maniera più antica di seppellire le messi; del resto proprio dal “sotterrare” (condere) deriva il nome del dio.

Anche Fauno appartiene all’insediamento del Palatino. Sua festa erano i Lupercali del 15 febbraio. In questo giorno i lucerci, sacerdoti del dio, si cimentavano in una corsa lungo i pendii del Palatino.

Tale usanza ha una giustificazione soltanto se si ammette che il perimetro di questa collina coincidesse con quello della città. Il collegio sacerdotale si divideva in lucerci Fabiani e Quinctiales (o Quintiliani). Entrambi, come indicano i loro nomi, appartenevano a delle sodalitates gentilizie: i Fabiani sono chiaramente collegati alla gens Fabia, la cui tradizione gentilizia si lega al culto di Fauno ed ai lupercalia. D’altra parte il culto gentilizio dei Fabi veniva praticato sul Quirinale e non sul Palatino. Presumibilmente dopo l’unione della comunità del Quirinale con quella del Palatino, fu aggiunta la sodalitas dei Fabiani, facente parte della comunità del Quirinale, a quella dei Quinctiales, il cui luogo di culto si trovava sul Palatino.







A Fauno ed ai luperci si collega il Lupercal, “la grotta del Lupo” situata ai piedi del Palatino. In essa secondo il mito erano stati allattati dalla lupa Romolo e Remo; qui si trovavano la ficus ruminalis e la porta Romana, che conduceva al Tevere, entrambi connessi col nome etrusco Rumon. Anche Diva Rumina, venerata sul Palatino, appartiene a questo ambito. Tutti questi nomi hanno la radice rum, rom, che si trova anche in Romulus e Roma. Come ha mostrato W.Schulze, il nome della città contiene il gentilizio etrusco ruma. Non è quindi casuale che la leggenda di Romolo si leghi al Lupercale ed alle località vicine. Anche i gemelli e figli del dio-lupo Marte nutriti dalla lupa, significativamente si collegano a Fauno o Luperco, che hanno forme di lupo o che rievocano il lupo nel loro nome. Da tutte queste constatazioni risulta che il nome di Roma originariamente si legava al Palatino. La tradizione antica anche in questo caso si è dimostrata vera.

Di contro agli dèi del Palatino abbiamo le divinità delle comunità sabine dei monti romani.

Qui è da menzionare Flora. Il suo tempio più antico si trovava sul Quirinale e pertanto Varrone la annoverò fra le divinità sabine alle quali Tito Tazio eresse altari. In realtà Flora la si incontra solo tra i cugini dei Sabini, le popolazioni sannite e sabelle, nonché tra gli Umbri. La sua festa Fiuusasiais (Floralibus) ed il suo nome (Fluusai kerriai = Florae Cereali) compaiono nell’iscrizione sannitica di Agnone. Altre iscrizioni votive si trovano nella zona meridionale dell’Umbria e lungo il corso superiore dell’Aniene; ad Amiterno e presso i Vestini di Furfo un mese mutua il suo nome proprio da Flora. Gli abitanti del Quirinale portarono con sé la dea nella loro migrazione in terra romana.

Già è stato menzionato Quirino. La sua assimilazione a Romolo non risale oltre il I secolo a.C. Il suo nome ne indica l’ambito di appartenenza. Come il Palatino o Palatium deriva da Pales, così il Quirinale deriva da Quirino. A Roma il culto di questo dio era limitato al Quirinale. Ivi Quirino possedeva un sacellum, considerato il più antico della città, affianco al quale sorse, a partire dal 293, un tempio più sontuoso costruito col bottino delle guerre sannitiche.

Quirino era il dio della guerra, o meglio il dio della guerra della comunità del Quirinale. Ivi infatti Marte non possedeva alcun culto. Da ciò nasce l’ipotesi che la comunità da cui sorse Roma, avessero due diverse divinità della guerra: il palatino Marte ed il quirinale Quirino. In base a tale suddivisione il collegio sacerdotale dei Salii era ripartito in palatini e collini (dal collis Quirinalis): gli uni erano legati a Marte, gli altri a Quirino. Entrambe le solidates rimasero in vigore anche dopo la fusione delle due comunità; questa bipartizione richiama quella dei luperci, della quale si è parlato precedentemente.

Tale divisione originaria si verifica anche in un altro caso. La triade Iuppiter, Iuno e Minerva, di cui parleremo ulteriormente, faceva seguito alla triade più antica costituita da Iuppiter, Mars e Quirinus. Accanto al dio sommo, nel cui culto si incontravano entrambe le comunità, si collocavano le due divinità della guerra.

Ancora una parola sul nome Mars. Appare sotto differenti forme: Mavors, Mars ed anche Mamers, tutte denominazioni di lingua latina. Mars, come da tempo riconosciuto, si formò dal più antico Mavors. Ma anche Mamers, successiva denominazione osca del dio, si comprende solo nell’ambito del latino. Il più antico canto cultuale romano –ossia il carmen arvale – conosce anche il vocativo Marmar. Il composito iterativo che ne è alla base, al nominativo doveva suonare Marts-marts per svilupparsi in Mamars e Mamers. Come da Mars si è formato il praenomen Marcus, così  Mamers da origine al corrispondente Mamercus. Le iscrizioni paleo-arcaiche di Orvieto e quelle di una stips votiva di Vejo, anch’essa risalente al VII secolo, riportano la versione Mamarce, ripresa dall’etrusco. Qui il praenomen appare ancora nella forma che precedeva l’indebolimento vocalico della seconda sillaba (causato dal protostorico accento iniziale).

Anche nel calendario si delinea questa dualità da cui si sviluppò Roma. Ma accanto a questo sistema di divinità originarie delle due comunità, si sviluppa un terzo gruppo di divinità, quelle che da un punto di vista linguistico rimandano all’Etruria: Volcanus, Saturnus, Diva Angerona e Furrina. In tal modo tutte le popolazioni o i clan che parteciparono alla fondazione di Roma, si ripropongono nel più antico ordine festivo  e divino.

Non può quindi meravigliare che tra i più antichi dèi di Roma si trovassero anche divinità greche. Volcanus nasconde sotto il nome etrusco il greco Efesto. Di Liber e del suo rapporto con Dionysos ed Eleutheros si è già parlato. Ceres presenta una perfetta corrispondenza con Demeter, sì da doversi identificare con questa. Anche nel culto Roma non è libera dall’influsso greco. I ritrovamenti di ceramica greca all’interno del più antico strato dell’urbe hanno la loro corrispondenza nel calendario.

Il quadro fu completato con gli scavi del tempio di Hera alla foce del Silaro, non lontano da Paestum. Questi attestano che proprio nella prima metà del VI secolo nell’Italia centrale esisteva una scuola di scultori nei cui lavori trovavano espressione gli dèi ed i miti greci. Attraverso la sequenza dei rilievi delle metope si poteva individuare come le scene fossero legate in una sequenza narrativa.

La posizione dei Greci non fu mai così forte da obbligare Etruschi, Latini e Romani, o altre popolazioni dell’Italia centrale, ad assumere divinità straniere. L’assimilazione di culti greci avveniva dappertutto per libera scelta. Né il potere politico, né influssi economici possono chiarire l’antico e profondo radicamento degli dèi greci. La loro forza e la loro capacità di seduzione era riposta solo in loro stessi. Questi dèi rivelarono alle popolazioni italiche una natura che fino allora era rimasta loro parzialmente o interamente nascosta: si trattava di una realtà spirituale. Quel che si era cercato in Italia o che si era percepito in immagine vaga, appariva ai Greci chiaro e tangibile. Assumendo pertanto questa creazione greca, la realtà di queste potenze divine fu elevata e prese contorni precisi.

Pertanto non è sempre possibile delineare chiari confini tra quanto era proprio e quanto era stato assimilato, tra elemento italico ed elemento greco. Significativi sono al riguardo gli scavi nell’area sacra a nord del tempio dei Dioscuri ad Agrigento. La successione degli strati archeologici indica che il culto di divinità ctonie sicule si rifaceva senza soluzione di continuità a Demeter e a Persefone. E quel che appare nella stratificazione archeologica viene confermato dalla posizione geografica dei luoghi di culto. Una catena di divinità similari unisce il culto di Demeter in Sicilia e nell’Italia meridionale all’Italia e all’Etruria. In quest’ambito bisogna considerare Ceres e Flora presso i Sanniti, i Latini ed a Roma, la capuana Damosia e l’etrusco-romana Anna Perenna. Accanto a Demeter abbiamo Kore, la divina fanciulla; abbiamo Libera e la figlia nel culto di Ceres di Agnone. Lo stesso spazio era occupato da Dioniso nelle sue manifestazioni greche ed italiche.

Gli dèi greci ed il mito greco non pervennero però a Roma per via diretta, almeno non al tempo dei re. E’ già stata considerata e deve essere ulteriormente studiata la mediazione etrusca. Il mito di Enea trasse origine dagli Elimi della Sicilia occidentale, di Se gesta e del monte Erice, e da qui raggiunse il nord. Terracotte di Vejo attestano che la leggenda prese piede verso la metà del V secolo nel sud dell’Etruria e nella vicina Roma. Odisseo già nei versi finali della Teogonia esiodea è indicato in compagnia di Circe al Circeo. Ma, come mostra il nome Ulisse, tale mito non pervenne a Roma attraverso l’epos, ma attraverso la mediazione illirica. Lo stesso vale per Metano o Messalo, in cui si rivela la più antica forma di Poseidone, stallone e sposo della Madre Terra. Gli illiri, più di altri popoli, mantennero elementi arcaici: le maschere dei morti, simili a quelle micenee, la forma dei loro tumoli funerari nello stile delle loro cittadelle e i motivi ornamentali della loro arte orafa.

Così attraverso il calendario arcaico si rivela a Roma tutto il mondo divino preclassico greco. Volcanus-Hephaistos, Liber-Dionysos, Saturnus-Kronos, la Madre Terra nelle sue diverse epiclesi, Poseidon: queste divinità ci riportano ad uno strato precedente quello degli dèi olimpici della poesia omerica. Anche nella vicina Vejo, come mostra l’aritimi delle iscrizioni sacrali arcaiche, è ancora conosciuta la divinità pre-omerica dell’Asia Minore. Nella cerchia delle divinità indigene entrano Fauno, come “colui che azzanna la gola” e come lupo; Pico, il picchio; Marte, lupo e toro: questi dèi mostrano ancora sembianze animalesche. Polarità fra sorgere e tramontare, fra nascita e morte si incontrano nella Madre Terra e nei Lari; elementi ctoni sussistono in Sol e in Iuppiter. Solo successivamente quest’ultimo è stato liberato da ogni tratto ctonio. Lo stesso legame con la natura, che si manifesta nelle forme animalesche e nel rapporto con la terra, conduce al culto delle divinità dei fiumi, di ruscelli e di caverne. Anche gli dèi greci assimilati richiamano elementi naturali. Volcanus-Hephaistos costituiva l’elemento fuoco; Ceres-Demeter era rappresentata come statua e Liber-Dionysos portava in primavera la fioritura della terra, ma guidava anche le schiere dei morti.

La religione romana si rivela dunque elemento della religione dell’Italia antica, parte di un insieme che si prolungava verso il mondo egeo. Sarebbe però estremamente azzardato supporre una iniziale omologazione in ambito religioso fra Roma e le altre realtà politiche. Tutti gli elementi disponibili dimostrano invece che Roma sin dall’origine mostrava un particolare carattere creativo, più originale e più acuto che nelle popolazioni limitrofe. Anche se troviamo gli stessi dèi e le stesse forme cultuali in altre zone d’Italia non si può misconoscere la profonda differenza esistente fra Roma e l’Italia: una differenza nella forma dello spirito.

Come prima considerato in ambito italico come in quello romano gli dèi si manifestavano non nella loro forma statica, ma in azioni ben determinate. Essi erano agenti ed attivi, come si vede anche nella loro onomastica. Roma invece si distinse dal resto d’Italia per il fatto che fissava l’atto divino atemporale in un momento ben preciso, unico. Già negli dèi presenti nel più antico calendario festivo risaltava la struttura storicamente e puntualmente costituita della concezione divina romana.

A causa di questa particolare concezione, Roma non si distinse soltanto dalle genti italiche, ma anche dai Greci. L’evento temporalmente determinato assunse una importanza fino allora sconosciuta. La concezione romana del divino inserito nella storia si contrappose nella sua specificità all’essere degli dèi Greci posto al di sopra ed al di fuori del tempo.

La posizione particolare assunta da Roma non si limitava alla concezione divina. Roma aveva concepito la propria esistenza come una creazione unica ed irripetibile, e sin dall’origine questa consapevolezza viene rispecchiata nei suoi miti e nelle sue istituzioni.

I re che regnarono sulla città di Alba Longa, secondo le fonti, furono discendenti di Enea. Il potere regale fu tramandato per successione ereditaria all’interno della stessa stirpe. A Roma invece mancò una dinastia regale continua ed unitaria; e mai ci si volle legare ai re di Albalonga e trarre da tale legame una qualche pretesa. Al contrario, Romolo significò un nuovo inizio, concetto questo che fu sottolineato con estrema decisione. Sua madre in effetti apparteneva alla famiglia reale albana, ma come vestale perdette la sua intoccabilità, si diede al dio. I figli, che nacquero da questo legame, furono abbandonati per ordine del re albano e quindi cacciati dalla casa e dalla città. Una lupa alimentò i gemelli Romolo e Remo. Come la madre che li allattò, i due gemelli erano dunque lupi e nomadi tra i boschi, spintisi verso un ostile e pericoloso “fuori” ed espulsi da ogni comunità. Essi si trovarono abbandonati a se stessi. Per cui Romolo non ricevette il suo comando da Enea, ma basandosi soltanto sulla propria forza edificò la nuova comunità, meritò il rispetto del suo gruppo e con ciò il comando.

Roma stessa si costituì, attraverso il mito, come realtà peculiare. Roma non fu eretta come colonia di nessun’altra città. Essa, così come il suo fondatore, non ebbe una origine regolare. Albani e Latini, uniti ai pastori che fin dall’inizio erano stati i compagni di Romolo, costituirono la prima comunità. A questa si aggiunsero fuoriusciti, delinquenti e banditi, come era stato del resto il primo re, riunitisi nell’asilo sul Campidoglio. Anche successivamente nessun Romano si volle considerare discendente degli Albani o dei Latini. Essi si consideravano del tutto svincolati dall’ambiente circostante.

Di conseguenza nessuna comunità vicina voleva avere a che fare con questa. I Romani dovettero persino rubare le donne “Voi Romani avete offuscato la perfezione dell’essenza dello Stato (latino), poiché avete accolto in esso Etruschi e Sabini, vagabondi, spiantati e stranieri in gran numero”. Così Dionigi di Alicarnasso faceva parlare l’albano Mezio Fufezio che si rivolgeva al re romano.

Roma si era affermata attraverso le proprie gesta e la propria forza. Attraverso questa ed attraverso la sua volontà si era costituita come comunità autonoma. Senza antenati e senza uno specifico carattere etnico Roma non si era sviluppata spontaneamente ma era stata voluta. Una volta  è stato  detto appunto che la città fu fondata su un suolo straniero che originariamente non le apparteneva. E’ facile capire quel che si intendeva con tale espressione. Tutto il suolo sul quale si estendeva Roma fu conquistato con la forza delle armi. E ciò non vale solo per le conquiste successive: anche il suolo originario, il suolo della patria, era stato conquistato con le armi. Si ribadisce che questo suolo non fu né acquistato, né regalato, né ricevuto come favore. Questo tipo di Stato sapeva di poggiare completamente sulla propria forza.

Queste concezioni risalivano a tempi antichissimi. E’ stata prima sottolineata l’antichità del mito di Enea. Un asilo sul Campidoglio risale probabilmente alle origini di Roma, al VI secolo. Ma già la più antica legislazione di Roma, le XII Tavole, risalenti alla metà del V secolo, non conteneva più nulla di un diritto d’asilo. Certamente non si sa se originariamente l’asilo fosse stato in rapporto con il fondatore della città, tuttavia un altro monumento ne testimonia l’antichità: la lupa bronzea del Campidoglio. Visto che fu eseguita verso la fine della monarchia, vuol dire che già era diffusa a Roma la leggenda di Romolo.

Quel che aveva contraddistinto il primo re di Roma, valse anche per i successori: la mancanza di ogni legame di sangue. Essi non erano assolutamente discendenti ed eredi di Romolo, e non appartenevano ad un unico clan. Qualcuno non era neanche originario di Roma. Lo stesso storico che ha riportato la testimonianza su Roma messa in bocca a Mezio Fufezio, così si espresse: “Dunque voi avete preso il vostro comando dallo straniero, ed anche il vostro senato è composto per lo più di immigrati”.

Ciò lo si può verificare anche da un punto di vista linguistico. La parola germanica per indicare il re (germanico chuning, tedesco Konig) è legata ll’idea di stirpe. Ha la stessa radice di genus e genos. Discendenza, famiglia regante e sangue reale ne costituiscono i presupposti denotativi. Ben diverso è l’ambito semantico del rex romano. Tale termine contrassegna colui che tiene il comando, che si estende su un dominio che viene reso dal termine tedesco “Reich”, costruito sulla medesima radice di rex. Qui non c’entra la discendenza, ma viene espresso il principio che si afferma proprio nella leggenda dei re di Roma.

Ciò vuol dire che non si evidenzia a Roma assolutamente alcun sengo che provi una discendenza ereditaria o una qualsiasi rilevanza data alla famiglia reale. Non si riconosce alcun ordine di successione. Tutti i re, ad eccezione di Numa e di Anco Marzio, morirono , secondo le fonti, di morte violenta. Numa e Tarquinio Prisco non erano neppure romani. L’uno era sabino, l’altro proveniva dall’Etruria. Servio Tullio era schiavo di nascita ed Anco, figlio di donna non maritata, era considerato nipote di Numa, ma non per discendenza maschile. L’unica vera successione dinastica si ebbe con i due Tarquini, ma con l’interruzione di Servio Tullio ed in seguito a un assassinio. Del resto la tradizione condannò all’unanimità i due Tarquini in quanto tiranni e consideravano giusta la loro cacciata.

Questo principio dell’esclusione di ogni successione fondata sul sangue nell’ambito della monarchia romanaè ben saldo e non ammette eccezioni. A ciò corrisponde una struttura simile in ambito divino.

Il re ha in Giove, la divinità somma, il suo corrispettivo: anche questi era ugualmente un isolato. Egli non possedeva un padre divino, non aveva moglie né discendenti. La concezione di paternità gentilizia come il concetto di famiglia gli erano estranei. Questa specificità del culto dello Iuppiter romano la verifichiamo  dalla particolarità del culto capitolino. Esso si differenziava da tutti i culti italici di Giove: si legava soltanto alla monarchia di Roma.

Il rapporto tra il dio del cielo ed il re non si limita alla comune opposizione all’idea genetica. Piuttosto si esprime in un procedere parallelo delle due figure sfociante in un quadro conchiuso e significativo.

Di nuovo ci da notizia di ciò il calendario festivo arcaico. La regalità, dopo aver esaurito il suo ruolo politico, ha continuato a vivere nel culto: il rex sacrificulus assunse le incombenze che un tempo aveva il monarca. Le fasi lunari regolavano i compiti del re all’interno di ciascun mese. All’inizio della prima fase egli salutava l’apparire della luna nuova con un sacrificio; con l’inizio della seconda annunciava le feste dell’intero mese. Inoltre il re svolgeva un ruolo specifico nel Regifugium del 24 febbraio, celebrazione che da lui prendeva il nome. La festa coincideva, in base al mese lunare calcolato di trenta giorni, con l’inizio dell’ultimo quarto lunare. Ma questa volta al re non spettava né un saluto né una predizione. Egli celebrava la fine dell’anno con la sua fuga dal comitium: viveva cioè il rito in prima persona.


Da sottolineare è la connessione con la regalità etrusca. Gli etruschi salutavano infatti pubblicamente il loro signore all’inizio di ogni quarto di luna ed in tale circostanza gli rivolgevano domande sulle questioni dello Stato rimaste in sospeso. Anche qui si determinava l’apparizione pubblica del re attraverso le fasi lunari, ma questa volta anche in ambito politico e non solo cultuale.

Tuttavia la posizione del re romano era più significativa della figura del sovrano etrusco. Il mese presso i Romani originariamente designava anche la luna, la quale, nella sequenza mensile determinava l’annualità. Era pertanto logico  che il re sottolineasse la fine dell’anno con una fuga rituale. Come appare consequenziale che il re fosse in stretto rapporto con questo elemento celeste dal quale dipendeva e attraverso il quale si manifestava lo scorrere del tempo.

Nella Roma repubblicana il generale in trionfo rappresentava nella sua persona Iuppiter Optimum Maximus. Il cocchio trainato da quattro cavalli bianchi corrispondeva al carro del dio del cielo e del sole, e la toga ornata con stelle dorate del trionfatore rappresentava il mantello stellato del cielo, appannaggio di Giove. La corona d’oro, che lo schiavo pubblico reggeva sulla testa del vincitore, apparteneva al tesoro del tempio capitolino. Il trionfatore aveva in comune con Giove anche lo scettro, per cui tutti gli ornamenti del trionfo erano segni del dio. A imitazione della figura cultuale posta nel suo tempio, il rappresentante umano di Giove doveva colorarsi la faccia di minio ed anche ciò attesta la sua identificazione col dio.

D’altro canto era detto chiaramente che l’abito del trionfatore era stato quello del re romano. Ciò indica che, prima dell’istituzione del trionfo, il re, per il suo abito, costituiva l’immagine del dio del cielo. Altro dato significativo era che l’ordine celeste alla base dell’anno del re, si identificava con la sua persona.

A Giove non competeva soltanto il luminoso cielo diurno. A lui appartenevano anche le Idi, giorni di luna piena in cui risplende chiarissima la volta celeste notturna. Tutte le luminosità celesti appartenevano al dio che esprimeva nel suo nome questa proprietà. A lui corrispondeva a Roma una regalità sacrale, la cui forma era determinata dal rapporto con i fenomeni cosmici.

Gli Etruschi diedero un contributo fondamentale alla costituzione di questa regalità. Da loro fu presa la denominazione di idus per il giorno di luna piena; la luna del resto regolava anche le funzioni del re etrusco e non solo di quello romano. Erano etruschi l’usanza del trionfo e l’abito del trionfatore. Mentre si evidenzia l’elemento romani nell’estensione della regalità al ciclo annuale e all’ordine celeste. Questo si collega con il rifiuto della successione ereditaria, di una dinastia reale, del sangue reale. Anche in ciò appare un elemento che dimostra l’unicità di Roma: l’idea particolare che si manifesta nell’immagine di Giove.

Nessun commento:

Posta un commento